MAGGIO 2022 ANNO XLVII - 233 IYAR 5782
Libri
Le poesie di Emilio Jona
Elisabetta Soletti
Venti anni di poesia, un lungo arco di tempo dal 1999 al 2021 dove la meditazione si cristallizza in parole che declinano sotto multiple sfaccettature le tante assenze e le tante lontananze che hanno segnato l’esistenza dell’autore (tra le travi sconnesse /dell’oggi e le ferite di ieri, confessa a p. 105). Assenze e lontananze che sono ripercorse in questa raccolta, sezione dopo sezione (belli molti loro titoli Il luminoso di una stella assente, L’impossibile idem, Anche dall’al di là, Passava la notte un’ombra di follia), con profonda e raffinata intensità della dizione. Dal vuoto muto del cielo di una stella assente, dai ricordi commossi degli amici di una vita scomparsi, dalle sfocate e struggenti immagini genitoriali si dipana un filo costante, la consapevolezza sull’impossibilità, o meglio sulla pochezza della parola, sulla cui insufficienza il poeta riflette nella sezione L’inchiostro che ti manca, nel dare corpo e voce ai ricordi, alle emozioni, agli affetti di un’esistenza ricca di multiformi e inesausti interessi, di rara e prodigiosa vitalità fisica e intellettuale.
Così si depositano componimento dopo componimento grumi di non detto e non dicibile, sulla pagina si posano lacerti e fotogrammi sbiaditi come si legge nella intensa poesia in ricordo di Bruno De Maria, quasi sempre espressi in forme negative. Infatti è possibile comporre una serie compatta e omogenea di aggettivi quali: irraggiungibile, il non più possibile, la parola indicibile, smarrito, assente, lacunoso, il silenzio più saldo, tra gli altri. E ad essi si affiancano i sintagmi che esprimono per sottrazione l’insufficienza della memoria e dello sragionevole dictum, la speranza infranta, la beltà del suo non ritorno, intoccabile il dono, un lacunoso passato… il colmo che è stato l’oblio (a p. 131), ad esempio.
Eppure a fronte del linguaggio della perdita e della negazione, emerge un’altra costante molto significativa della raccolta, intendo con questo l’asciuttezza, il tono lucido e fermo del registro che Jona ha scelto e che nulla concede al facile patetismo, allo sterile rimpianto, neppure nelle sezioni più scopertamente autobiografiche. I congedi dagli amici più cari e dalle donne amate, la pena e il dolore inestinguibili per la morte dei genitori sono affidati a immagini legate ai momenti condivisi affettuosi e sereni trascorsi in paesaggi e in viaggi in luoghi cari e ameni. Ma accanto ad essi affiorano, indelebili, i segni della secolare persecuzione del suo popolo (E nell’aria sosta integra/ intima, non confutabile / la nostra storia centenaria, è detto a p. 41). Segni talora espressi con toni pacatamente nostalgici come nel bel ricordo di Giorgina Passigli, Fosti una madre leggera ed arguta /un’uccella semita, Sefora si direbbe / nella nostra lingua smarrita, (a p. 64). In altri momenti il tono invece si alza sarcastico e violento nell’esecrazione. Nella poesia in memoria dei genitori Jona scrive: Divisi dal morso della malattia / e dalla lebbra nazista (p. 70), e in un’altra lirica riandando all’origine della sua passione musicale annota: e passo passo si capisce /anche Richard il serpente / che tanto piaceva / all’imbianchino di Braunau (p. 84).Le memorie di ferite e di orrori storici che non possono né devono essere rimossi hanno il vertice in due componimenti Rendiconto progressista a p. 119, e particolarmente in Ricucire l’infranto a p. 119, tragico specchio del passato ma anche della martoriata situazione attuale.
A tutto ciò si aggiunge – ma non può stupire chi conosce la vastissima cultura dell’autore – il raffinato tessuto ritmico e prosodico che anima i componimenti. Sono le strutture anaforiche, sono le rime, spesso dissimulate, o talvolta sono gli esibiti prelievi danteschi: dismagra/agra, immilla, aspro deserto; sono le trasparenti reminiscenze leopardiane, particolarmente nella prima sezione, Le intemperanze della luna, o ancora sono le insistite trame foniche con la preferenza per i nessi consonantici con vibrante che compongono una trama di rimandi e di echi interni che saldano le poesie in unità e assolutezza del dire.
Elisabetta Soletti
Emilio Jona, Il non più possibile fruscio degli anni, Novara, Interlinea 2022, pp. 176, € 14
Rendiconto progressista
In questi giorni di rosso ardimento
di stasi e delirio amoroso
di gelido epitaffio
d’infingarda erezione
sono ridicoli i passi, i veleni
del non detto
in quest’agosto 2005
del va e del vieni
tra algida grandine e tormentati torrenti.
Intanto Israele è caduto
nella trappola iraniana
con i droni abbattuti;
nei cunicoli e nelle trincee
scavano gli hezbollah
i loro passaggi segreti.
Le nostre menti pensanti
non giustificano le reazioni israeliane
né le ignobili equazioni che essi siano
uguali ai nazi o al feroce americano.
I nostri cuori progressisti gemono
a tanto scempio, chiedono un’alimorta
e uno spazio di meditazione
ma è come non succedesse
e a nessuno gli importasse niente.
Ma che cos’è per noi
questo antico paese
questo retaggio a che vale
questa bancarotta preferenziale
o l’inganno di una crocifissione?
Noi che siamo figliastri di paria
di ostetriche amabili, di commesse possessive
di laureate graziosissime, onuste di gloria?
Parlavamo del 1938
le cene presso amici d’antan
erano patetiche e ridanciane,
ricordavamo
le persecuzioni degli ebrei
la casa del Barazzetto, i mobili antichi
non li avevano ancora rubati
il giardino era curato
e i borghesi, adulti e bambini
sostavano presso il tè delle cinque
le gazzose con le biglie di piombo
e l’intreccio delle parentele.
Nel 1942 a Torino ancora sabauda
bruciavano gli ultimi piani
e i morti erano deliberatamente civili
e i vivi erano esuli nelle case di campagna
dalle finestre addormentate dal gelo
dalle estati ridondanti, dai bagni nei torrenti
con splendide ragazze dagli occhi verdi
i seni socchiusi come nettari adombranti
con le ginocchia celate dalle pieghe
vaste delle gonne pudiche.
Nel 1948 eravamo sovente bevuti
tanto da abbeverare Garibaldi
dai manifesti del fronte popolare
ma c’era Iddio che ci vedeva
nel segreto dell’urna e dell’io
e Stalin no.
Ci rimboccammo le maniche
fra le macerie della ricostruzione
si leggeva Sartre e Gide
si metteva a tacere lo sterminio degli ebrei
nella dolcezza delle sere
e nella luce e nell’ombra di ogni mura
dell’oscura Piazza San Carlo
si poteva ascoltare
Togliatti furbetto e omissivo
appassionarci al futuro.
Solo dopo, ed era ormai tardi e strano
le rugose signore
e i mariti ottantenni si chiesero
se erano vissuti invano.
Ma il nostro privato quelle sere
era un polpettone giudio
vano e rotondo, un avvio
di rosette come al solito
appese a capo all’ingiù, a guardare
capovolto il mondo dell’io.
Emilio Jona
agosto 2005
Share |