ACCOGLIERE CHI CI CERCA

Intervista a Lucia Levi

Intervista di Emilio Hirsch

 

Lucia Levi vive tra Torino e Milano, dove lavora per una multinazionale delle telecomunicazioni. Nelle scorse elezioni comunitarie si è candidata per Comunità Futura, è risultata tra gli eletti più votati ed è ora impegnata nel consiglio sulla gestione finanziaria ma soprattutto nell’organizzazione della vita sociale.

Ci racconti qualcosa della tua vita e della tua vita professionale?

Sono nata a Torino e qui ho studiato, prima scuola elementari pubblica, poi nella scuola media ebraica. Dopo il liceo scientifico ho studiato ingegneria al politecnico. Ero incerta tra ingegneria ed economia e commercio, ma sono una persona pratica e mi piace che il mio operato abbia un esito concreto. Ora, a posteriori, sono contenta della mia scelta: il lavoro da ingegnere mi ha permesso di trovare sempre un riscontro tangibile in tutto quello che faccio. Una volta laureata, ho iniziato a lavorare nell’ambito della ricerca e ho cominciato occupandomi del mondo delle telecomunicazioni. Tuttavia, durante questo periodo, mi sono accorta che stavo diventando ogni giorno più esperta di argomenti sempre più ristretti. Al contrario, a me piace vedere le cose da un punto di vista più pratico e più ampio, variando di tanto in tanto la mia visuale. Fortunatamente, l’esperienza nella ricerca è risultata un mezzo efficace ma anche tranquillo di passare dall’università al mondo del lavoro e sono, quindi, entrata in una grande azienda privata di telecomunicazioni a costruire la rete per i telefoni cellulari GSM. Qui il risvolto pratico è stato subito lampante e ovviamente per me di grande soddisfazione: il segnale o c’era o non c’era e quando una volta perduto ero in grado di farlo ricomparire era una vera gioia. In questa azienda ho continuato per lungo tempo, ricoprendo diversi ruoli di responsabilità, dalla progettazione alla manutenzione e adesso sono di nuovo nella parte di sviluppo.

Ruoli sempre più importanti che ti hanno portato di qua e di là! Insomma hai lasciato Torino, hai viaggiato e vissuto in altre città. Raccontaci di queste esperienze.

All’inizio della mia carriera lavoravo ad Ivrea e facevo la pendolare con Torino. Poi mi hanno trasferita a Milano e lì mi sono stabilita, inserendomi in una nuova città dove ho iniziato a frequentare una delle tante comunità ebraiche. Dapprima, ho frequentato gruppi di giovani dove ho incontrato tutta una serie di persone che erano anche loro emigrati verso Milano e con cui ho condiviso momenti interessanti di scoperta. Con molti di loro sono rimasta in contatto e continuo a frequentarli soprattutto al tempio o agli eventi comunitari.

C’è qualcosa che di Torino ti è mancato o, al contrario, che ti manca di Milano, quando sei a Torino?

Ovviamente, la città nella quale si cresce e le amicizie che si creano quando si studia sono le più incisive ed importanti; sono diverse da quelle che ti crei successivamente, magari trasferendoti in una città per lavorare, perché ti trovi all’improvviso con persone nuove  ma non sempre si prova  piacere nel limitarsi a frequentare persone incontrate nel mondo del lavoro. Quindi, Torino è sicuramente sempre la mia città. Tuttavia, a Milano ci sono opportunità ed attività per tutti gli interessi, inclusa la possibilità di frequentare persone di tipo diverso in funzione di quello che ti piace fare. Ambientarsi a Milano non è però così facile, e questo è particolarmente valido a proposito della vita ebraica, perché ci sono forti rivalità all’interno delle diverse realtà ebraiche milanesi, dove ogni gruppo ha le sue caratteristiche specifiche e muoversi da un gruppo all’altro può essere percepito come un tradimento.

Infatti, ultimamente sei sempre più fissa a Torino. O sbaglio?

Non mi sono mai iscritta a Milano perché penso che una piccola comunità abbia più bisogno di me, sia come contributo economico che come impegno personale. In una comunità così grande e dispersiva come quella di Milano è davvero difficile sentirsi indispensabile.

È questo che ti ha spinto a candidarti?

In passato ho sempre rifiutato la candidatura perché non ritengo serio partecipare alla  gestione di una comunità non potendo essere presente alle riunioni di consiglio  o di giunta. Ma dopo il Covid tutto è cambiato e molte delle riunioni sono in teleconferenza, rendendo la presenza fisica meno essenziale. Lo stesso dicasi del mondo del lavoro: pertanto questa volta ho deciso di accettare ed eccomi qua!

Quindi adesso come consigliera, premiata da un ragguardevole numero di preferenze, che sogno intendi realizzare?

Il mio sogno è quello di aprire la comunità anche a chi è residente temporaneo e non la frequenta, per mancanza di incentivi adeguati. Così come io sono stata accolta in una delle comunità di Milano quando mi sono trasferita, il mio sogno è quello di poter realizzare qualcosa di analogo anche nella nostra comunità. Per questioni storiche e indipendenti dalle dinamiche ebraiche, la comunità di Torino, come la città stessa, ha perso tantissimi ragazzi che sono emigrati in altre città, sia per lavoro che per amore o per tutte e due le cose insieme. Quindi, anche se gran parte di una generazione si è trasferita altrove, ora sono tantissimi gli studenti che si stabiliscono a Torino da altre città e che, in questo momento, non sono accolti ed introdotti nella comunità. Giusto per fare un esempio accaduto al Tempio proprio il sabato successivo alle elezioni, sono stata avvicinata da un signore anziano di origine straniera che, pur vivendo a Torino da lungo tempo, si era iscritto in comunità solo recentemente ma non era mai stato sufficientemente coinvolto nelle attività e nella vita ebraica torinese. Non sapeva neanche chi fossero i consiglieri e sembrava che il suo ruolo in comunità fosse giusto solo quello di fare numero e pagare le tasse. Dunque, credo che sia nostro obbligo accogliere questa persona, e chi, come lui, potrebbe e vorrebbe partecipare attivamente alla vita ebraica. L’accoglienza è sempre stato un tema problematico a Torino e mi piacerebbe farne un cardine del mio lavoro da consigliera.

Oltre al problema dell’accoglienza, la comunità ha avuto forti divisioni interne. Pensi che questo periodo di aspro contrasto sia ancora tale oggi? Secondo te, la presenza di due liste alle votazioni è un segno di confronto pacifico o è una contrapposizione che si mantiene ancora nel presente?

Credo che queste domande sia meglio porle alla lista Anavim, perché noi di Comunità Futura, fin da subito, volevamo aprirci e collaborare. Ciononostante, a me piace andare d’accordo con tutti e mi pare di poter affermare che il mio rapporto con tutti i consiglieri sia ottimo, anche se non ci conosciamo ancora bene. Ora c’è da tirarsi su le maniche e lavorare, e mi sembra che questo possa attenuare le contrapposizioni. Come quanto successo durante la pandemia, dove, secondo me, il consiglio precedente è riuscito a mantenere coesione ed un’ottima capacità organizzativa. Tra di noi ci sono ancora posizioni distanti ma sono convinta che nel tempo riusciremo a cambiare, realizzando l’obiettivo di includere, aprirsi, non litigare e gestire al meglio questa comunità, facendola prosperare e allontanando il più possibile quell’orribile sensazione di estinzione imminente.

Sono assolutamente d’accordo con te. All’interno della nuova squadra di lavoro, ogni consigliere ha assunto compiti specifici. Che incarico hai preso? Come prevedi che questa mansione specifica ti permetta di raggiungere gli scopi che ci hai evidenziato?

Ho assunto due incarichi di forte responsabilità. Il primo riguarda il bilancio, sebbene debba ancora mettere a fuoco  appieno il significato di tale mansione, anche perché il bilancio consuntivo è compilato con grande professionalità e precisione dal segretario della comunità, che in questi anni ha lavorato duramente e bene. Presumo che, molto probabilmente, si tratterà di dare gli indirizzi di bilancio per gli anni a venire e, quindi, decidere quali siano le partite di spesa, per potersi muovere nella direzione da noi auspicata. Mi riservo tuttavia di dare maggiori dettagli in corso d’opera. C’è però un altro compito che mi sta particolarmente a cuore, ovvero quello di assessore alle attività sociali. Anche in questo caso non ho ancora avuto tempo per chiarirne la portata. Scherzosamente qualcuno ha definito questo incarico come l’assessorato che riempie i bicchierini del Kiddush dello Shabbat. Riempire i bicchierini di vino è socialmente molto importante ma è ovvio che intendo sfruttare questa occasione anche per altro e che sarà forse qui che potrò maggiormente dare corso alle mie promesse elettorali di accoglienza ed inclusione.