ESHKOL NEVO A TORINO

Foto di Stephan Röhl, Creative Commons BY-SA 3.0 

Lo scrittore israeliano si racconta

Intervista di
Filippo Levi e Susanna Terracina

Abbiamo incontrato Eshkol Nevo presso la libreria Feltrinelli alla presentazione del suo ultimo libro “Le vie dell’Eden”. Alla nostra richiesta di fare un’intervista per Ha-keillah, si è dimostrato subito molto disponibile, dandoci appuntamento per il weekend successivo presso un bar del quadrilatero romano, uno dei luoghi di Torino di cui ha detto di essersi innamorato. Al termine dell’intervista ci siamo lasciati  con la sua promessa di visitare la comunità in una prossima occasione.

Sembra che esista un forte feeling tra i moderni scrittori israeliani e i lettori italiani, non solamente i più famosi, ma anche moltissimi scrittori emergenti sono stati tradotti in italiano negli ultimi 20 anni. Quale pensi sia la ragione di questo feeling?

In realtà è vero anche l’opposto, molti scrittori italiani sono stati tradotti in ebraico ed hanno trovato un vasto pubblico in Israele, come ad esempio Italo Calvino, Paolo Giordano, Elena Ferrante, Natalia Ginzburg, Elsa Morante, c’è molto interesse per i libri italiani in Israele e viceversa. Io penso che i temi fondamentali che interessano gli israeliani, come la famiglia, l’amore, l’amicizia siano gli stessi che interessano gli italiani e mi sembra che il tipo di rete di relazioni interpersonali e familiari sia la medesima nei due paesi. Ci sono chiaramente molte differenze tra Italia e Israele, ma queste somiglianze di fondo sono un dato comune. Inoltre, penso che se tu hai avuto una buona esperienza con uno scrittore israeliano, intendo come lettore, ne cerchi altri. È contagioso come il Covid, ma in modo positivo.

Tu hai detto che i tuoi libri spesso sono tradotti per primi in italiano, è un caso o c’è una ragione per questa scelta?

Non è un caso. La ragione è che i miei libri vendono molto bene in Italia. Di tutte le lingue in cui i miei libri sono tradotti – ne ho 13 o 14 –  l’italiano e l’Italia sono il mio maggiore mercato, quello in cui ho la più grande platea di lettori. Il mio editore Neri Pozza, anche prima che io finisca di scrivere un nuovo libro, vuole iniziare a tradurlo. Tanto per capirci, Tre piani ha venduto più copie in Italia che in Israele, credo che sia il romanzo israeliano che ha venduto più copie in Italia negli ultimi dieci anni.

Dopo diversi anni trascorsi negli Stati Uniti quando eri giovane, il tuo soggiorno a Milano più di recente, tu conosci bene la diaspora. Hai stabilito relazioni con le comunità ebraiche locali? Cosa pensi sulla relazione tra Israele e le comunità ebraiche della diaspora?

Penso che questa relazione sia davvero speciale, e nel libro L’ultima intervista ho scritto sul genere di relazione che gli scrittori israeliani hanno con le comunità ebraiche.

Infatti, gli ebrei della diaspora sono le persone che immediatamente ti supportano e vengono alle presentazioni dei libri. Anche in paesi in cui ho pochi lettori gli ebrei vengono spesso a conoscermi, sono interessati, mi invitano a trascorrere con loro uno Shabbat in sinagoga. Ovunque ti trovi hai sempre la sensazione di essere accolto in una maniera molto calorosa sia a Londra, che a Sidney o a Bucarest.

E poi chiaramente c’è il fatto che per gli ebrei della diaspora Israele è un’opzione e, per gli israeliani, vivere fuori da Israele è anche un’opzione. È come dare uno sguardo a ciò che non abbiamo scelto, cosa sarebbe successo se avessi deciso di andare a vivere in Israele? Come sarebbe stata la mia vita? E se io decidessi di venire a vivere in Italia come sarebbe la mia vita? La relazione tra Israele e la diaspora è sempre uno sguardo verso un’altra vita possibile.

C’è poi un altro aspetto della relazione che è curioso, ed è l’aspetto politico. Tutti mi fanno sempre domande politiche, ebrei, non ebrei, giornalisti. All’inizio ero sorpreso, come mai questi hanno una opinione su Israele, sul mio paese? Ma poi ho realizzato che tutti hanno un’opinione su Israele! Devi accettarlo, in prospettiva e con pazienza.

Qual è la tua opinione sulla città di Torino? Cosa ti piace della nostra città?

Sono innamorato. Non è un’opinione, è pura emozione. Sono davvero innamorato di piazza Emanuele Filiberto. È la prima volta che frequento questa zona, ma penso di aver trovato il mio posto. In ogni grande città ho i miei posti. Questo è il mio posto, amo il mercato [Porta Palazzo ndr]. Inizio ad avere qualche amico, ho un’insegnante di italiano, amo il mio appartamento. Sono stato già quattro volte, e tornerò ancora, insegnerò alla scuola Holden ancora tre anni e ho già chiesto di poter avere di nuovo il medesimo appartamento.

Nei tuoi libri c’è sempre una pluralità di personaggi che interagiscono tra di loro in modo corale, con una forte connotazione psicologica. Come crei le tue trame e le tue storie?

Solitamente parto da un’idea nel senso di un luogo, un personaggio, una lingua, un’esperienza, qualcosa di personale o da qualcosa capitato ad un amico. Ad esempio le campane delle chiese che suonano a Torino potrebbero essere di ispirazione per un prossimo lavoro.

Qualcosa insomma è l’avvio, poi questa idea diviene via via più polifonica,  varie voci si intrecciano democraticamente, si sviluppano e crescono. Ad un certo punto c’è una svolta, un movimento di rivolta che porta a rivedere quanto scritto sino a quel momento. Io generalmente inizio da un punto di vista e  poi pian piano si insinua un punto di vista differente. Ad un certo punto poi mi dico andiamo a rivedere la storia, vediamo cosa potrebbe pensare ad esempio la madre di un certo personaggio, si aggiunge la colonna sonora del racconto, e così il libro diviene sempre più complesso.

Quindi parti sempre da un evento reale sul quale inizi a lavorare?

Si, qualche evento, una sensazione personale, un luogo, qualcosa che qualcuno mi racconta, una storia che ho sentito. Oggi non abbiamo molto tempo, ma di solito mi piace intervistare i miei intervistatori. Sono il tipo di persona che preferisce ascoltare, cerco storie in continuazione. Può essere che prossimamente creerò una storia ambientata in Italia, credo possa essere il momento giusto.

Le tue storie sono allo stesso tempo fortemente legate alla realtà israeliana, ma in grado di parlare a tutti. Quando abbiamo visto la versione cinematografica di Tre piani, ambientato a Roma, l’abbiamo trovata meno adatta all’Italia che non a Israele. Nei tuoi libri il contesto e il modo di vivere israeliano sono sempre rappresentati in maniera vivida. C’è un messaggio su Israele che vuoi dare ai tuoi lettori o è un messaggio più cosmopolita?

Messaggio non credo che sia la parola giusta. Io scrivo su Israele perché lo conosco bene, sarò capace di scrivere su altri paesi quando mi sentirò in intimità con loro. Posso scrivere su Israele perché lo conosco, oppure posso scrivere sul Sud America perché ci sono stato molte volte. È il mio background, la mia cultura.  Quando leggo un libro di Erri de Luca o di Elsa Morante, loro non hanno un messaggio sugli italiani, ma su aspetti dell’umanità.

Qualche volta ovviamente tratto di problemi israeliani, è importante per me toccare questioni politiche o sociali, ma non sto seduto a casa pensando qual è il mio messaggio. A volte qualche libro, come Soli perduti, tocca questioni molto israeliane, altri come Tre piani sono più universali, ma non è una decisione, è la storia che decide per me.

Per molti israeliani laici la relazione con la tradizione ebraica è un non problema, nei tuoi libri fai spesso riferimenti ad aspetti della tradizione ebraica. Qual è il tuo rapporto con l’ebraismo?

D’accordo, io non vado in sinagoga, non sono per nulla religioso, ma l’ebraismo è anche una cultura. È nel mio sangue, nella mia mente, nelle mie parole, perché scrivo in ebraico. Questa è l’antica cultura del nostro popolo. Pertanto, che io voglia o non voglia quando scrivo la parola “Pardes” che letteralmente significa frutteto, questa ha molteplici significati; è un fatto che non è contestabile. Non posso negare che io sia uno scrittore ebreo, perché in qualsiasi frase che io scrivo in ebraico dietro c’è la Bibbia o il Talmud.  Penso che  mi ci sia voluto molto tempo per ammetterlo, perché sono cresciuto in una famiglia molto laica, ma ne sono diventato pienamente consapevole. Sotto gli strati, sotto la superficie c’è l’ebraismo. Al di sotto di ogni frase scritta in ebraico abbiamo 2000 anni di cultura, e questo entra nei miei libri.

Israele sta diventando sempre più religiosa. Soli perduti è una riflessione molto più profonda di cosa sia Israele oggi che non Tre piani. Ci sono gli ortodossi, chi ritorna alla religione, gli arabi, l’esercito, c’è una rappresentazione molto più vasta di Israele, del mio paese.

Alcuni importanti scrittori israeliani, come Oz, Grossman, Yehoshua hanno sempre coniugato l’attività di scrittori con un forte impegno politico in favore del processo di pace. La tua generazione sembra meno politicamente coinvolta. Qual è la tua opinione al riguardo?

Io sono totalmente coinvolto politicamente, ma la distinzione che facciamo in Israele oggi è diversa da quella che si faceva ai tempi di Amos Oz o di A.B. Yehoshua, perché Israele è cambiata. Non è più tra destra e sinistra. Tu mi hai detto che HK è un giornale di sinistra: in Israele non parliamo più di destra e sinistra. Qualche volta qualche politico lo fa ma è una manipolazione e non corrisponde alla realtà. La distinzione in Israele è tra democrazia e non democrazia. Rispetto dei giudici e del sistema giudiziario, razzismo o antirazzismo: questo è il tipo di conflitto di oggi.  Tutte le questioni come il processo di pace, destra e sinistra non sono le questioni più importanti oggi. Dovrebbero, e spero che lo diventino nuovamente, ma in questo momento siamo di fronte a qualcosa di completamente diverso. Il problema fondamentale è la possibilità che l’estrema destra vada al governo e che cambi la natura democratica dello stato, dei diritti civili.

È lo stesso in Italia mi dici? Non lo so. Non conosco abbastanza la politica italiana. Tutti mi chiedono opinioni sulla politica italiana, ma io non ne so abbastanza. Io ti racconto di Israele, se vuoi fare dei confronti puoi farli, io non ne sono responsabile!

Quali sono i tuoi autori italiani preferiti?

Tutti i nomi che ti ho fatto all’inizio sono riferimenti importanti per me. Calvino ha una maniera molto speciale di costruire i suoi libri. Lui è interessato alla struttura, gli piace giocare. Lo stesso vale per Umberto Eco. Io sono anche molto interessato alla simmetria dei romanzi, questo tipo di architettura nei libri di Calvino è quello che mi ispira di più.

Però mi piacciono anche gli altri scrittori, mi piace l’aspetto emozionale dei romanzi e la maniera in cui i personaggi sono costruiti.

C’è una combinazione molto particolare tra l’intelligenza e la vita reale. L’aspetto intellettuale può essere molto acuto, ma non è mai scollegato dalla vita reale. Qualche volta in altri paesi ci sono scrittori che sono così intellettuali che perdono il contatto con le persone reali, mentre in Italia anche i maggiori intellettuali sono sempre collegati all’energia della vita reale.

Qual è il tuo libro di cui sei più soddisfatto? Quale suggeriresti di leggere per primo?

Sempre l’ultimo, adesso è Le vie dell’Eden. Penso che anche se lo consideri da un punto di vista ebraico e israeliano, ci sono aspetti speciali ne Le vie dell’Eden. Questo libro è collegato alla storia ebraica. Puoi leggere questo libro su due livelli, c’è una trama che è quella di un thriller, drammatica, melodrammatica, piena di energia, musica e relazioni, ma c’è anche un altro livello, connesso al “Pardes”, al Talmud, al mistero, al lato mistico del collegamento con Dio, l’essere un uomo, una donna. Gli ebrei possono leggere questo libro in una maniera differente, più sofisticata. Per questo sono molto fiero di questo libro.

Inoltre puoi leggere le mie storie su Vanity Fair, sono tutte disponibili sul sito web del giornale. Ce ne sono moltissime, senza fine. Sono come un apericena, puoi assaggiare quello che ti piace!

Torino, 23 ottobre 2022