di Michele Sarfatti

Il lavoro degli storici sulla shoah

Uno dei temi che gli storici della Shoah in Italia e nell’Europa meridionale continuano a indagare e dibattere è la sorte degli ebrei nei territori occupati dall’Italia durante la Seconda guerra mondiale.

Questi territori includevano, a vario titolo, la Francia sud-orientale (dal novembre 1942), la Libia, l’Africa Orientale Italiana (la prima a essere liberata, nel 1941), il Dodecanneso, gran parte della Grecia, l’Albania, le aree ex-jugoslave del Kosovo meridionale e centrale e della Macedonia occidentale annesse all’Albania, il Montenegro, la fascia (nominalmente croata) a est e nord-est delle regioni dalmate annesse al Regno d’Italia nel 1941. Come queste ultime, anche la Slovenia meridionale era stata annessa. Vi era poi anche la regione sovietica presidiata da militari italiani (proprio quel Donbass oggi al centro di altre mire imperiali). Ciascuno di questi territori ebbe una vicenda particolare, che non può essere riassunta in queste colonne, per cui debbo rinviare gli eventuali interessati al mio libro sul tema (“I confini di una persecuzione”, 2023); si può però sintetizzare che fino al settembre 1943 la politica nazista di sterminio non ebbe attuazione nei territori “italiani” (tranne parte del Donbass). Così come non la ebbe nell’Italia vera e propria. Peraltro, vi furono respingimenti ai confini, nonché un ordine di consegna (degli ebrei tedeschi che erano in Francia sud-orientale che fu però vanificato dall’improvviso accadere del 25 luglio 1943).

Questa differenza di comportamento tra alleato settentrionale e alleato meridionale durò tra i ventuno e gli otto mesi, a seconda dei luoghi. Essa ha attirato da sempre l’attenzione degli studiosi. Talora con ricerche serie, come ad esempio quelle di Davide Rodogno sul “nuovo ordine mediterraneo” e di Luca Fenoglio su Angelo Donati e la Francia occupata, talora con considerazioni “etniche” per me inaccettabili, come quella espressa da Léon Poliakov: “Sembra che il contagio della propaganda razzista che attecchisce con maggiore probabilità presso i popoli barbari, trovi un terreno ideale nei climi nordici. Il popolo italiano, con la sua saggezza mediterranea, fu in gran parte assolutamente ostile a queste tendenze” (“Gli ebrei sotto l’occupazione italiana”, 1956). Comunque, il dibattito e il contrasto tra gli studiosi sono molto vivi. E sono alimentati da continue ricerche di documenti e testimonianze e da continui confronti di interpretazioni.

Un esempio di ciò concerne una specifica vicenda, avvenuta a inizio 1942 in quella particolare area “italiana”, che era costituita dal territorio del Kosovo meridionale e centrale (comprendente Priština, sede di un’antica comunità sefardita) e dall’Albania cui era stato annesso nel 1941. Va tenuto presente che la fascia settentrionale del Kosovo era stata unita alla Serbia occupata dai tedeschi, e che questi – con precocità rispetto alla Polonia e all’Ucraina – sterminarono gli uomini ebrei nella seconda metà del 1941 e tutti gli altri ebrei nei mesi seguenti. La vicenda che qui tratteggio è la consegna da italiani a tedeschi di 51 ebrei. Poiché dopo quell’atto, nessuno di loro dette – come gelidamente si dice – segni di vita, tutti noi studiosi siamo sicuri che furono uccisi assieme agli altri ebrei della Serbia.

Stimolato da alcuni riferimenti di Rodogno e dello storico jugoslavo Jaša Romano, ho svolto una ricerca documentaria, pubblicata nella “Rassegna mensile di Israel” del settembre-dicembre 2010. E ho appurato che la vicenda si era svolta nel seguente modo. Nell’autunno 1941 molte decine di ebrei erano passate dal Kosovo “tedesco” nel Kosovo “italiano”, o con documenti falsificati o con attraversamenti clandestini; a parere degli italiani, i tedeschi non avevano contrastato gli sconfinamenti, anzi; gli italiani avevano reagito col (cercare di) bloccare gli ingressi e con l’arresto dei profughi individuati; il 14 febbraio 1942 l’ufficiale italiano di collegamento presso il comando militare tedesco della Serbia a Belgrado riferì al comando militare italiano in Albania che i suoi interlocutori chiedevano l’arresto e la riconsegna degli ebrei provenienti dalla Serbia, valutati in due centinaia; il comando italiano incaricò un tenente colonnello dei carabinieri di andare a Belgrado per valutare e prendere accordi; questi concordò la consegna dei profughi ottenendo in cambio la consegna all’Italia di alcuni influenti kosovari anti-italiani; il 17 marzo i carabinieri del Kosovo consegnarono alla polizia tedesca un primo gruppo di 51 ebrei profughi. Dopodiché, mentre gli italiani preparavano la prosecuzione delle consegne, gli ebrei di Priština coinvolsero le autorità locali del Kosovo, che premettero sul governo collaborazionista albanese di Tirana, il quale infine decise l’annullamento di ulteriori consegne e il trasferimento a Berat, nell’Albania interna, degli altri rifugiati e di parte degli stessi ebrei di Priština. Questi i fatti, in estrema sintesi. E questi i ruoli svolti dalla comunità ebraica locale (in parte deportata dopo l’8 settembre) e dalle varie autorità.

Si deve aggiungere che non è documentato che quei carabinieri avessero piena conoscenza del destino che attendeva gli ebrei; ma è altresì corretto presumere che questi, negli interrogatori, avessero raccontato il perché della loro fuga dalla Serbia e avessero implorato di non essere consegnati all’occupante tedesco.

Quanto allo scambio deciso a Belgrado, dalla lettura dei documenti coevi (diari di guerra tenuti dalle formazioni militari e carteggi intercorsi tra le autorità italiane) risulta chiaro che queste ultime imbastirono una trattativa ‘alla pari’, chiedendo e accordando. I kosovari che l’Italia ottenne con lo scambio erano i fratelli Kryeziu; dal libro di Carlo Spartaco Capogreco sul campo di internamento di Renicci, in provincia di Arezzo, sappiamo che uno di loro parlò nella manifestazione antifascista del 9 settembre 1943 in quel campo.

Tornando al lavoro di ricostruzione e interpretazione degli studiosi, è accaduto che uno storico di Londra abbia scritto un bel libro sulla vicenda di tutti i profughi ebrei in quella regione d’Europa: Bojan Aleksov, “Jewish Refugees in the Balkans 1933-1945”, 2023. In esso, a proposito dell’episodio del Kosovo, scrive che le circostanze precise (“exact circumstances”) della consegna del 17 marzo 1942 restano poco chiare (“remain unclear”), e afferma che gli arresti italiani avvennero per pressione tedesca (“under the increased pressure from their German allies”) e che la consegna avvenne perché i carabinieri cedettero appunto alla pressione tedesca (“succumbed to German pressure”) (pagine 197 e 271). Come ho illustrato nella sintesi precedente, questi vocaboli sulla non chiarezza e sulle pressioni non sono affatto attestati dalla documentazione dell’epoca, anzi.

Dietro a queste ingiustificate affermazioni di nebulosità e di sovrastanti pressioni tedesche, io vedo la riproposizione di una diffusa ritrosia ad assegnare all’Italia (fascista) le specifiche responsabilità persecutorie che pure le competono. Alla base di ciò, vi è un gran numero di fattori; per citarne solo quattro, si va dalle ricadute di lunga durata della buona fama che Mussolini si era tenacemente costruito all’estero, alla “assolutizzazione” delle responsabilità (comunque di per sé gravissime) di Hitler e del gruppo dirigente nazista; dalla difficoltà ad accettare la possibile coesistenza, nei protagonisti italiani, di durezza decisionale e bonarietà comportamentale (nel campo di Fossoli gli internati in attesa del treno di deportazione non furono trattati disumanamente), al fatto che – grazie alla discrasia cronologica dell’adesione del fascismo allo sterminio – varie migliaia di ebrei europei in territori “italiani” evitarono la morte e ce ne hanno dato testimonianza, mentre naturalmente non abbiamo testimonianze di quelli che – sempre nel 1941-1943 – furono respinti alle frontiere o che furono consegnati. Ecco, quest’ultima considerazione è quella che per me non può mai mancare nello studio di questi temi: la storia della Shoah e la memoria della Shoah non possono permettersi di tralasciare o porre in secondo piano chi non ha avuto più storia e non ha più potuto comunicare la propria memoria.

 

 

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