“GLI EBREI IN ITALIA. I PRIMI 2000 ANNI” di ANNA FOA – RIFLESSIONI

di Giovanna Grenga

PARTE PRIMA: dalla diaspora al XIX secolo

La storica Anna Foa si è misurata negli anni recenti con testi fondativi della storiografia ebraica in Italia quali 16 ottobre 1943 di Giacomo de Benedetti; con lo straordinario Portico d’Ottavia 13, infatti, l’autrice ha raccontato la storia di una casa, allora fatiscente, e delle famiglie di ebrei che l’abitavano, tutte vittime della deportazione durante l’occupazione nazista di Roma. Con La famiglia F., ha esaminato le tante anime della partecipazione degli italiani, ebrei e non, al Risorgimento e alla Resistenza, la loro ispirazione ebraica, liberale e socialista, cristiana, il ruolo delle élite intellettuali e sindacali ebraiche, ripercorrendo le vicende di una famiglia di politici, intellettuali, imprenditori, innovatori, le precoci emancipazioni intellettuali delle donne in questa famiglia che incrocia tradizioni diverse, anche religiose.

Questa premessa è necessaria per avviare una riflessione sull’ultima fatica di Anna Foa, “Gli ebrei in Italia”. I primi 2000 anni” che rappresenta una straordinaria sintesi focalizzata sulle peculiarità dell’ebraismo italiano nella diaspora europea.

Il prevalere numerico, identitario e culturale degli ebrei in Polonia e nel resto dell’Est Europa, insieme al loro massiccio sterminio nella Shoah, ha fatto passare in secondo piano l’esistenza di un ebraismo italiano non solo antico e radicato ma anche, nel primo millennio, luogo d’origine di molta parte della diaspora occidentale. Il fatto che gli ebrei in Italia, nel primo millennio, siano stati la culla della diaspora occidentale, avrebbe meritato almeno la stessa aura leggendaria della cacciata nel 1492 degli ebrei dalla Spagna: il gherush, presto divenuto mitico, sovrapponendosi nella data, il 9 di Av, alla stessa distruzione del Tempio di Gerusalemme, nel 70 di e.c. La storia del giudaismo ovviamente c’è in quanto tocca la presenza ebraica, le sue motivazioni, il suo statuto giuridico, la sua cultura. Una storia, quella degli ebrei in Italia, condizionata nel tempo più dai rapporti con il mondo italiano non ebraico che da quelli, pur ben presenti, col resto del mondo ebraico e che si può pertanto definire “una storia italiana”. L’ebraismo italiano ha sempre parlato la lingua della maggioranza, ne ha assorbito la cultura e l’ha a sua volta influenzata in profondità, si è costantemente misurato con l’esterno, ne ha avuto curiosità, vi si è aggiustato, gli ha resistito.

I lettori sono portati a cogliere le specificità, le differenze con le altre storie degli ebrei in Europa occidentale e, al tempo stesso, a rilevare le somiglianze, i rapporti, le analogie. Si parte dai primissimi secoli della diaspora, prima della guerra tra Roma e la Giudea, quando nulla differenziava i giudei stabilitisi a Roma dai mercanti di varia origine che si stabilivano sulle coste mediterranee. Neppure si differenziarono quando la guerra portò migliaia di giudei schiavi a Roma. Dal punto di vista del loro stato giuridico, in epoca imperiale, gli ebrei avevano lo status di peregrini, uno status che designava, dentro il dominio romano, gli abitanti delle città straniere conquistate dai Romani e lasciate sopravvivere. Non godevano dei diritti politici ma potevano vivere secondo la loro legge. Molti ebrei avevano tuttavia nel corso del tempo ottenuto la piena cittadinanza, grazie alla Constitutio Antoniniana, anche detto editto di Caracalla, (212 c.e.) che estese il diritto di cittadinanza a tutti gli abitanti liberi dell’impero, ad eccezione dei dediticii (arresi), i barbari non romanizzati stabilitisi nel territorio romano.

Gli ebrei si erano avventurati nel tempo in diaspore spontanee popolando essenzialmente le coste del Mediterraneo, l’Italia meridionale, la Provenza, la Spagna. Dopo la disastrosa guerra contro i romani, la diaspora diviene galut nella memoria ebraica, ovvero il frutto delle sconfitte e dell’oppressione, divenne esilio. La percezione negativa della diaspora si innesta sui fenomeni che la distruzione del Tempio ebbe sull’ebraismo, con la fine del culto basato sul Tempio, sul ceto sacerdotale e sui sacrifici. Il culto nella sinagoga (un luogo dove il culto della Parola di Dio è aperto a tutti e non riservato alla sola classe sacerdotale, perché lì ogni israelita può venir chiamato a leggere e a spiegare la Scrittura) sostituì quello nel Tempio. Ma, avverte l’autrice, la sinagoga è un’istituzione ben precedente la caduta del Tempio, anteriore alla fine del IV secolo e a tutto quello che si è soliti considerare, anche miticamente, l’inizio della diaspora/galut.

Nell’Italia del primo millennio gli ebrei erano presenti soprattutto nella parte meridionale della penisola, fino ad Ostia e Roma.  Il Sud d’Italia era infatti in questi secoli il cuore della diaspora occidentale con centri di insediamento antichi, precedenti la distruzione del Tempio di Gerusalemme, originati in gran parte dall’afflusso di schiavi in seguito alle guerre, ma anche da migrazioni e stanziamenti spontanei, dovuti ai traffici commerciali. Qualunque fosse l’origine della loro presenza, gli ebrei a Roma sono una presenza saldamente radicata; unica, nella diaspora occidentale, durata senza soluzione di continuità fino ad oggi. “Sono rimasti nella città dopo la distruzione del Tempio, e anche quando, dopo la vittoria cristiana, il loro stato giuridico comincerà ad essere seriamente scalfito”.

La presenza ebraica è documentata sulle coste dell’Italia meridionale; grande fioritura culturale ebraica fra VI e IX secolo, la prima in Europa. Anna Foa esamina le importanti trasformazioni dell’organizzazione e della vita degli ebrei al loro interno, e nei rapporti con il mondo cristiano, nel cui seno vivevano. In Italia, almeno in tutte le zone dove restava prevalente la tradizione del diritto romano, nonostante il suo sovrapporsi nell’Italia meridionale con il diritto bizantino e goto e poi con quello longobardo, il diritto degli ebrei a esistere all’interno del mondo cristiano non fu mai messo in discussione, tranne casi locali e limitati di espulsioni. Questo prima della dominazione spagnola. Un esempio di contesto diasporico è il percorso di un nucleo di ebrei italiani, insieme ad ebrei provenienti dall’area provenzale, che si originò tra il IX e il X secolo, dando origine al mondo ashkenazita, con le comunità stanziatesi nell’area renana e destinate ad una straordinaria vita culturale. Un passaggio che è stato raccontato miticamente, nei testi ebraici, per esempio con il protagonismo dei Kalonimos che vanno da Roma a Lucca e poi in Germania, al seguito di Carlomagno.

La spinta definitiva alla teorizzazione del mantenimento della presenza ebraica in seno alla società cristiana sarebbe venuta tuttavia non dal potere civile, ma da un papa, Gregorio Magno, su basi teoriche religiose e non politico-giuridiche. Di fatto, la scelta della presenza, sia pur subordinata, attuata dalla Chiesa e condivisa nelle aree a sua forte influenza anche dai poteri laici, rese possibile ad una minoranza di vivere in seno alla maggioranza. L’Italia cattolica, a differenza di molti degli altri paesi europei, esercitava così una sorta di apprendistato della diversità. Nulla di simile, neppure da lontano, alla tolleranza: per gli ebrei, fu inferiorità, umiliazione, chiusura nei ghetti, separazione, controllo, e molte altre negazioni. Ma comunque fu per la Chiesa la gestione di un rapporto con l’alterità, un rapporto che si concretizzò in un equilibrio destinato a durare nei secoli e a consentire agli ebrei di restare presenti in Italia e di poter professare pubblicamente il loro culto.

È un dato di fatto che gli ebrei italiani erano e sono difficilmente distinguibili dai cristiani in mezzo ai quali vivono, tanto che per distinguerli, nel 1215, la Chiesa deve introdurre, “mutuandolo dal mondo islamico medioevale, il segno distintivo”. Aspramente avversato dagli ebrei, il segno veniva spesso coperto per motivi concreti, pratici: nel caso dei mercanti o dei medici ebrei che viaggiavano, il porto del segno li esponeva a rischi maggiori dei viaggiatori cristiani. Ma la resistenza era anche volta al significato che esso assumeva come simbolo infamante. A tal proposito Anna Foa chiude polemiche annose con una veloce precisazione: l’adozione da parte nazista del segno ha spinto la storiografia a confrontare le leggi ecclesiastiche sugli ebrei del periodo che precede l’Emancipazione con quelle naziste. Così Raul Hilberg all’inizio del suo studio sulla Distruzione degli ebrei d’Europa, come più recentemente David Kertzer. Ma, comunque lo si voglia interpretare, il nesso fra il segno imposto nel Medioevo agli ebrei e quello loro imposto dai nazisti non è né ovvio né lineare. Nel Medioevo, gli ebrei, anche quando recavano un circolo giallo sul loro mantello, erano in convivenza, sia pur segregativa, il segno non era un preludio allo sterminio. E qualunque possa essere il valore simbolico di un segno distintivo, non si tratta di una differenza di poco conto.

Strettamente collegata al rapporto con la Chiesa è anche l’istituzione dei ghetti, altra specificità tutta italiana, con la chiusura notturna degli ebrei in spazi ristretti e la radicale separazione dalle abitazioni dei cristiani”  Una chiusura questa, a parte il caso molto a sé di Venezia dal 1516, realizzata non solo come separazione ma soprattutto come pressione alla conversione. 

Per indagare queste molteplici specificità, per ogni macro-periodo storico esaminato, l’autrice rievoca un fatto saliente che riguarda le comunità ebraiche in Italia. Nel caso di Simonino e gli ebrei di Trento la riflessione è che   l’Italia sembra piuttosto refrattaria ad accusare gli ebrei di omicidio rituale, come è refrattaria ai pogrom che accompagnano la peste, pochi i casi di accuse di profanazioni dell’ostia, o di avvelenare i pozzi o di complottare contro il mondo cristiano, come in Francia all’inizio del Trecento.  Ma attenzione, la popolazione italiana non è più razionale e illuminata di altre, si tratta in realtà di una popolazione sottoposta ad un maggior controllo da parte della Chiesa. Accuse mostruose contro gli ebrei potevano diventare molto pericolose per Roma: l’equilibrio sempre precario e ambivalente su cui si reggeva la convivenza fra ebrei e cristiani poteva essere minato da accuse, rivolte agli ebrei, tali da rompere il patto fondamentale che li legava al mondo cristiano.  In questo senso, anche le accuse da parte dell’Inquisizione, sempre desiderosa di estendere il suo controllo agli ebrei, si fermano o vengono fermate in genere ad un punto preciso: quello in cui una leggenda poteva trasformarsi in processo, una credenza, in rogo.   In realistica sostanza, accogliendo la presenza ebraica, il papato deve anche garantire le condizioni perché questa presenza sia possibile.

Come un guanto rivoltato sono da leggere i capitoli che analizzano il rinnovamento culturale provocato nel mondo ebraico dal Rinascimento e l’influsso della cultura ebraica sulle trasformazioni culturali prodotte anche dall’esodo sefardita in Italia. E poi l’età dei ghetti che ridefinisce le modalità della presenza ebraica in Italia, pur senza annullarla come in Spagna.  La scelta spagnola, dell’espulsione o conversione, rappresentò per un breve momento una prospettiva possibile anche in Italia e rischiò di minare l’equilibrio secolare creato tra Chiesa ed ebrei. Alla fine, si attuò un compromesso, quello di mantenere la presenza degli ebrei, ma dentro le mura dei ghetti. E tra le specificità del mondo ebraico italiano vi è quella di non aver mai scelto loro, in campo religioso, la strada della trasformazione radicale o all’inverso quella della conservazione totale: né Riforma, quindi, né ultra-ortodossia. Quanto influiva nella scelta di questa strada intermedia l’abitudine al continuo rimodellamento della loro cultura, al rapporto costante con l’esterno e, in particolare, con la Chiesa?

Il Rinascimento italiano è poi fitto di specificità ebraiche da indagare.  A differenza che in altri movimenti culturali che lo avevano preceduto, gli intellettuali rinascimentali si avvicinarono, nella loro riscoperta dei classici dell’antichità di cui si era perduta memoria, anche alla cultura ebraica, alla sua lingua e ai suoi testi. Un fenomeno che non solo trasformò in profondità i rapporti del mondo ebraico con la cultura cristiana esterna, ma toccò profondamente anche l’identità culturale ebraica in quello che alcuni studiosi hanno descritto come umanesimo ebraico. La rivoluzione della stampa determinò un notevole rimescolamento culturale, avvicinando testi e tradizioni ashkenazite e sefardite, ridimensionando il ruolo esegetico dei rabbini di fronte all’accresciuta possibilità di accesso ai testi da parte di tutti. Soprattutto in Italia, dove forte era l’influsso del mondo cattolico, ciò che mutò fu l’immagine che ebrei e non ebrei ebbero, rispettivamente, l’uno della cultura dell’altro: da parte cristiana nacque una nuova curiosità verso la cultura e la stessa lingua ebraica, in corrispondenza di un avvicinamento del mondo ebraico alla cultura esterna più intenso di quanto non fosse mai stato in passato.

Tutto questo non mutò però la posizione della minoranza ebraica in seno alla società cristiana né l’antica subordinazione. Questi secoli coincidono anzi con una rinnovata spinta verso l’omogeneità religiosa e accentuata intolleranza della diversità, conoscono un aumento dell’insofferenza verso la donna, il povero e l’emarginato, la crescita quasi ovunque delle espulsioni e ghettizzazioni degli ebrei.

Alcuni studiosi hanno interpretato il rinnovamento umanistico e rinascimentale del mondo ebraico italiano come una sorta di precoce Illuminismo, diversissimo certo da quello del Settecento, tale da determinare tuttavia dei cambiamenti che avrebbero reso inutile il ricorso, successivo, a mutamenti religiosi e filosofici radicali. In particolare, si pensi a quelli introdotti dalla Riforma del mondo culturale e religioso ebraico iniziata, in Germania nel primo Ottocento. La cultura profana ebraica si apre largamente a questi stimoli, proprio come la musica strumentale entra nelle sinagoghe. In questa interpretazione, insomma, il mondo ebraico italiano avrebbe conosciuto una sorta di Illuminismo già nei secoli fra il XV e il XVI. Perduto, inghiottito poi dal cattolicesimo controriformistico? O attivo sotterraneamente a spiegare il grande slancio della cultura ebraica, se non ovunque almeno nelle Corti rinascimentali e nei ghetti, fra XVI e XVII secolo?

La Chiesa invece si sente progressivamente assediata dalla modernità, dal pensiero illuminista che si diffonde e, per difendersi, erige nuove barriere che segnano un altro ghetto, diverso da quello degli ebrei, fatto di divieti e paure, e una crescente identificazione dell’ebreo con l’odiata modernità. L’Europa cambia e si rinnova, e la Chiesa, in Italia, si chiude a difesa, conferma antichi stereotipi, si sente sempre più estranea a quegli ebrei che ha mantenuto presenti per secoli rifiutando ogni espulsione. È un mutamento netto, che possiamo percepire, nei confronti degli ebrei, in pontefici considerati “illuminati e tolleranti”, come Benedetto XIV, papa Lambertini. Sotto il suo pontificato, ad esempio, fra il 1740 e il 1758, si accentua la tendenza della Chiesa alla conversione dei minori. Minori che venivano “offerti” dai genitori, ma che ora, secondo la Chiesa, possono essere offerti anche dagli avi o da lontani parenti convertiti al cattolicesimo. Non si trattava, secondo il diritto canonico, di veri e propri battesimi forzati, come la lunga storia del dibattito sull’uso della forza nel sacramento del battesimo ci dice. Ma il confine, nel caso dei minori, era diventato davvero molto esile.


PARTE SECONDA – Dalla fine dell’800 al secondo dopoguerra

In tutta Europa, gli ultimi decenni dell’Ottocento sono gli anni in cui, per usare un’espressione di George Mosse, il razzismo “infetta” il cristianesimo.  L’antica speranza della conversione fu messa in ombra, negli ultimi decenni dell’Ottocento, dall’odio per gli ebrei.  Ma anche in Italia e anche da parte della Chiesa si assiste ad una ripresa di antichi stereotipi della tradizione antigiudaica, dal deicidio alla carnalità, mescolati con quelli che fin dal Medioevo avevano privilegiato l’idea di contaminazione: l’ebreo malvagio per natura, più che per la sua mancanza di fede, l’avvelenatore di pozzi più che deicida e incredulo. Ed ecco riapparire in grande evidenza le accuse del sangue, che ben si prestavano a questa commistione, collegate ad una ripresa dell’antica polemica contro il Talmud.

E sono anche le premesse per I Protocolli dei Savi di Sion, il falso più diffuso del periodo che precede la Shoah, un libro le cui pagine grondano sangue. Il libro, di cui esistono varie versioni, pretende di essere la fedele trascrizione dei piani segreti elaborati dai savi di Sion, cioè i capi del movimento ebraico mondiale, per impadronirsi del mondo.  L’idea di un’organizzazione internazionale ebraica derivava sia dal nascere del movimento sionista con il Congresso di Basilea, sia dall’Alliance Israélite, cioè l’organizzazione fondata nel 1860 in area francese per proteggere gli ebrei perseguitati nel mondo, sia dalla mitologia antisemita sulla finanza internazionale ebraica.

Nel 1920 il giornale inglese Times ne dimostra la falsità. Ma il fatto che I Protocolli siano un falso non scoraggia i loro sostenitori. Anche se falsi, I Protocolli racconterebbero una storia vera: una tesi, questa, del falso che tuttavia dice il vero, che avrà una lunga storia successiva nel negazionismo post-Shoah. È significativo che in Italia il libro non sia stato particolarmente diffuso per molti anni, nonostante l’edizione del 1921, e che la sua ampia diffusione italiana abbia corrisposto allo sviluppo organizzato dal regime della propaganda antisemita subito prima del varo delle leggi razziste del 1938.

Quanto alle origini del sionismo in Italia le specificità davvero non mancano. Il sionismo non era un frutto dell’ebraismo italiano. Era nato in contesti molto diversi, privi di quell’emancipazione che gli ebrei italiani avevano conquistato col Risorgimento, quali la Russia degli zar e l’Europa dell’Est. L’ebraismo italiano non conosceva quelle violenze antisemite che nella Parigi di Dreyfus avevano convinto il padre del sionismo, l’ungherese Theodor Herzl, a ritenere che non vi fosse posto per gli ebrei nemmeno nella Francia figlia della Rivoluzione del 1789.  Il sionismo trova modo di gettare radici in Italia saldando l’aspirazione a Sion con altre istanze, in particolare quella di una rifondazione integrale dell’identità ebraica, di un rinnovamento della tradizione religiosa parallelo, ma molto distante, da quello immaginato dalla Riforma in Germania. Nel 1916 Dante Lattes e Alfonso Pacifici fondano il settimanale “Israel”, il primo periodico ebraico italiano sionista. Nella loro attività, oltre che di studiosi anche di giornalisti e divulgatori, si propongono di vivificare e riaccendere lo spirito dell’ebraismo italiano, da loro considerato come assimilato e in decadenza. Di qui il progetto di un “Rinascimento ebraico”, in cui nazionalismo, cultura e tradizione si sarebbero fusi armonicamente: Firenze diviene il cuore del sionismo italiano. 

Diverso il carattere del gruppo sionista fondato a Roma negli anni Venti da Enzo Sereni, Avodà, ad impostazione socialista, che mirava ad una trasformazione in senso operaio e contadino della borghesia ebraica italiana, accompagnata da un rinnovato senso dell’identità ebraica. 

Nel 1922, al momento della marcia su Roma, gli ebrei italiani iscritti al Partito Nazionale Fascista erano circa il 3 per mille degli iscritti complessivi, cioè una percentuale tre volte maggiore di quella degli ebrei sul resto della popolazione, l’uno circa su mille.  Ma non troviamo nessun ebreo nei governi fascisti, a parte il caso di Guido Jung, che fu ministro delle Finanze dal 1932 al 1935, e di Aldo Finzi, sottosegretario all’Interno dal 1922 al 1924. Una percentuale molto più alta di ebrei, oltre il 10%, si ritrova fra gli antifascisti, in particolare fra gli intellettuali, fossero socialisti come i sostenitori e collaboratori del periodico socialista Critica sociale o liberali come quelli che aderirono al Manifesto degli intellettuali antifascisti, lanciato nel 1925 da Benedetto Croce. Come ha scritto Michele Sarfatti, possiamo quindi dire che “gli ebrei furono fascisti come gli altri italiani, e più antifascisti degli altri italiani”, dimostrando così un maggiore attaccamento ad una visione liberale e democratica della politica e della cultura, quale era stata del mondo ebraico italiano nel Risorgimento.  

Gli ebrei italiani vissero fra il 1938 e il 1943, in uno stato di inferiorità e di perdita dei diritti, ma non di pericolo per le loro vite. Molti furono licenziati dal loro lavoro, altri perdettero una gran parte dei loro beni, non poterono continuare a studiare, laurearsi. Nessuno fu imprigionato solo perché ebreo: fino al 1940 in carcere o al confino finirono solo gli ebrei antifascisti. Ci furono, è vero, episodi sparsi di violenze, percosse, aggressioni a singoli o a gruppi di ebrei, e fra il 1941 e il 1942 alcune sinagoghe furono devastate a Ferrara, Torino, Casale Monferrato, Trieste, Padova. Molte di queste violenze coincisero con la diffusione nelle sale cinematografiche del film antisemita tedesco Suss l’ebreo. Alcuni ebrei si suicidarono.  Ma fino al 1943, nell’Italia non ancora occupata, gli ebrei italiani e quelli stranieri rifugiati in Italia non furono mandati in deportazione, come invece successe a partire dal 1942 nei paesi occupati dai nazisti.

Non ci furono in Italia, come invece ci furono nell’Est Europa, gruppi partigiani composti da soli ebrei. I numeri erano troppo piccoli per consentirlo, l’ambiente partigiano era privo di quell’antisemitismo che invece caratterizzava molta parte dei partigiani all’Est Europa e che rendeva difficili i loro rapporti con gli ebrei. I partigiani ebrei italiani si sentivano italiani, prima italiani che ebrei. La famosa Brigata ebraica, che partecipò a combattimenti in Emilia e Romagna, non era formata da partigiani. Si trattava di un corpo reclutato in Palestina, allora sotto il mandato britannico, formato nell’estate 1944, e facente parte dell’VIII Armata Britannica. Niente a che vedere, dunque, con i pur numerosi ebrei che in Italia parteciparono alla Resistenza.

Il capitolo dedicato alla Chiesa e agli ebrei sotto l’occupazione si pone acutamente in dialogo con le recenti aperture di archivi. Quando il 10 settembre i nazisti occupano Roma, il Vaticano è uno Stato neutrale nel cuore della guerra, circondato da poche guardie svizzere e poi da una cerchia di soldati tedeschi a separarlo dalla città. Il Vaticano continua a riconoscere il governo monarchico di Badoglio e non la Repubblica di Salò. Ma intorno al papa e al suo segretario di Stato, cardinale Maglione, fervono le trattative diplomatiche da parte alleata come da parte tedesca. Pio XII non esce mai nella città, (come invece aveva fatto in luglio dopo il bombardamento di San Lorenzo, recandosi nei quartieri colpiti e il 13 agosto, dopo il successivo bombardamento nel quartiere di San Giovanni) durante l’occupazione tedesca di Roma per evitare di riconoscere l’occupazione. Pio XII è molto ostile a che il popolo romano prenda le armi per liberare Roma dai nazisti: la Resistenza è un ostacolo al suo progetto tutto diplomatico.

Per i mille e più razziati del 16 ottobre ci fu deportazione e morte, ed è molto difficile stabilire se un intervento pubblico del Papa avrebbe o meno cambiato le cose. Invece, si aprono i conventi, le chiese, migliaia di ebrei vi trovano rifugio, i nazisti chiudono gli occhi, solo i fascisti si ostinano a fare due volte irruzione in territori che godono dell’extraterritorialità arrestandovi ebrei e partigiani. L’irruzione più grave si ebbe nel febbraio 1944, nella basilica di San Paolo fuori le Mura, ad opera della polizia repubblicana guidata dal nuovo questore Caruso e della banda diretta dal collaboratore di Kappler Pietro Koch, con circa sessanta arresti, fra cui numerosi ebrei.

Le intense pagine dedicate da Anna Foa al dopoguerra ci riportano ad un tragico conteggio. Nel 1938 gli ebrei italiani, una piccola minoranza, circa 1 su mille, erano 47000 circa, nel 1945 meno di 30000. Erano, cioè, diminuiti quasi del 40%: più di 4000 le abiure e 6000 le emigrazioni dopo le leggi del 1938, all’incirca 7500 i morti nelle persecuzioni. Il mondo ebraico italiano si era fortemente ridotto, e su questi numeri si attestò anche successivamente. Gli ebrei delle comunità più piccole si spostavano in quelle più grandi, un processo di riduzione del numero delle comunità iniziato già nel secolo precedente: le comunità italiane erano state 87 nel 1840, ora si erano ridotte ad una ventina. Roma contava negli anni Cinquanta del Novecento 12000 ebrei, Milano 6000, le altre comunità intorno ai 1000. Ad accrescerne l’entità giunsero gli ebrei cacciati dal Medio Oriente e dalla Libia, stanziatisi prevalentemente a Milano e a Roma. A questi numeri possiamo accostare quelli di una sia pur ristretta migrazione verso la Palestina, non ancora Stato d’Israele, di ebrei italiani, circa un migliaio, non pochi dei quali però ritornarono in Italia entro due o tre anni. Questi i numeri per la storia del mondo ebraico italiano nella seconda metà del Novecento.

Gli ebrei italiani impegnati a ricostruire il mondo ebraico furono fortemente sostenuti dalle organizzazioni ebraiche americane, dagli ebrei stranieri che, internati nei campi del Sud, si erano salvati dalla deportazione e dai militari palestinesi della Brigata Ebraica.  Ma bisognava anche rinnovare le dirigenze comunitarie dopo i lunghi anni di dittatura fascista, un problema che a Roma ci si propose fin dal giugno 1944, quando ancora al Nord partivano i carri per Auschwitz. Erano innanzitutto in una situazione di grave difficoltà la dirigenza della Comunità romana e quella dell’Unione delle Comunità. I due presidenti, Ugo Foà per Roma e Dante Almansi per l’Unione, che erano stati in carica durante l’occupazione nazista, si scontrarono duramente, dopo la liberazione di Roma, con il rabbino capo di Roma, Israel Zolli, che era da loro stato sollevato dal suo incarico per aver, sostenevano, abbandonato la comunità per nascondersi. Ma il rabbino fu presto reintegrato nella sua carica dal Governo, mentre il colonnello Charles Poletti, governatore alleato di Roma, scioglieva il consiglio della Comunità romana. Nell’ottobre 1944 si dimetteva anche Dante Almansi.  Dietro questa crisi si nascondevano i conflitti fra i sionisti, che stavano guadagnando sempre più terreno, e il vecchio gruppo dirigente del periodo fascista.  Sullo sfondo, la questione del giudizio sulla gestione comunitaria durante l’occupazione nazista in tutta Italia: se in alcuni casi l’impegno di rabbini e dirigenti comunitari era stato eroico, in altri, in particolare a Roma, non pochi erano i conti rimasti aperti.  Da una parte, infatti, i dirigenti comunitari accusavano il rabbino di essersi nascosto e di aver abbandonato la sua Comunità, dall’altra Zolli accusava la dirigenza comunitaria di non aver preso provvedimenti di fronte ad un disastro prevedibile.

Il rabbino Zolli, illustre studioso, poco amato dagli ebrei romani di cui non capiva o non si curava di capire le mentalità, aveva perso due fratelli già nel 1942 durante la Shoah in Galizia. Era quindi bene al corrente di quanto stava succedendo all’Est e non si faceva illusioni sui nazisti. Dopo l’8 settembre, chiese più volte ai dirigenti comunitari di chiudere tutte le sedi delle istituzioni ebraiche, comprese le sinagoghe, e di invitare gli ebrei a nascondersi e a procurarsi documenti falsi. Le richieste che Zolli aveva fatto a Foà non erano irragionevoli. In molte comunità i rabbini avevano messo in atto esattamente le stesse misure, Cassuto a Firenze, Pacifici a Genova, Elio Toaff ad Ancona, Hasdà a Pisa. In molte città si formavano comitati di ebrei e cattolici per cercare di proteggere e nascondere gli ebrei. Zolli, tacciato di allarmismo, esortò i fedeli a nascondersi e si stabilì non in Vaticano, come poi si raccontò, ma da amici antifascisti non ebrei. Fu il primo ebreo che i nazisti andarono a cercare per arrestarlo, senza trovarlo. 

Nel clima degli anni immediatamente successivi alla Liberazione, con l’amnistia varata nel 1946 per consentire la pacificazione, le continuità tra la burocrazia e gli apparati statali pre e post-fascisti e la necessità di presentarsi come vincitori e non come sconfitti nel consesso delle nazioni europee, il processo al regime e con esso agli italiani era davvero troppo difficile da realizzare. In un clima di sostanziale impunità dei crimini commessi dai fascisti italiani sotto l’occupazione, sancita nel 1946 dall’amnistia, la caccia all’ebreo portata avanti dai militi di Salò, le denunce, le collaborazioni con quello che nei tribunali veniva definito “il tedesco invasore” portarono a condanne molto miti, anche di quanti erano responsabili della morte in deportazione di decine o centinaia di ebrei. Come, in questo clima, misurare effettivamente gli effetti di un antisemitismo che, ove dimostrato, avrebbe solo facilitato ai colpevoli il diritto a godere dell’amnistia, dal momento che questa era prevista per tutti i reati ideologici? La maggior parte degli sgherri fascisti del colonnello Kappler, a Roma, per non fare che un esempio, furono condannati non per chi avevano inviato in deportazione ma per i beni che avevano rubato.

Ad un primo momento in cui memoria della deportazione “razziale” e politica si intrecciano e si accavallano, subentra quello della definizione dell’oggetto Shoah, che comprende anche l’attribuzione di un’unicità, in sé sul momento utile e importante, ma che sul lungo periodo, nel susseguirsi di nuove atrocità di massa, di nuovi genocidi, diventa problematica. A chi attribuisce alla Shoah un valore paradigmatico, di evento estremo in grado di analizzare e riconoscere gli altri genocidi, si contrappone una visione identitaria che chiude la Shoah nel cerchio ristretto della storia ebraica, vista come una serie infinita di persecuzioni il cui sbocco logico e naturale sarebbe lo sterminio. Il rapporto con Israele è così divenuto, insieme con la memoria della Shoah, il cardine su cui si basa l’identità degli ebrei del terzo millennio, in Italia ma anche nel resto dell’Europa e del mondo. L’identificazione dell’ebraismo con Israele è diventata diffusissima: fra gli ebrei, per cui non si riesce quasi più ad immaginare un ebreo che non senta un legame fortissimo con lo Stato di Israele, come anche fra i non ebrei, tanto che non pochi di loro considerano che si possano sostenere posizioni sovraniste e razziste pur essendo, per usare un’espressione diffusa, “amici di Israele”. Come non pensare che questo sottintenda, consciamente o meno, un rifiuto dell’ebraismo diasporico in sé, un’immagine degli ebrei diasporici, cioè minoranza nei vari paesi e nelle varie culture, come “fuori posto”, come solo temporaneamente lontani dalla loro patria naturale, cioè Israele?

E con l’autrice, viene da chiedersi, guardando anche alla rinnovata insistenza del mondo ebraico italiano sull’unicità della Shoah e alla sua riluttanza ad accettare qualsiasi confronto con i genocidi che costellano il Novecento, prima e dopo la Shoah, se non siamo di fronte ad una sorta di riappropriazione ebraica della Shoah e della sua memoria di contro al ruolo universale e paradigmatico che essa ha assunto con la Giornata della Memoria. Si riproporrebbe così, a proposito della memoria, il vecchio conflitto tra l’anima universalistica ebraica e quella particolaristica. La Shoah paradigma, in un caso, dei genocidi, nell’altro un eterno antisemitismo, specie fra chi ha ancora nelle sue memorie dirette o famigliari ferite aperte, che neppure i lunghi decenni passati da quegli eventi possono aver sanato. Dal 7 ottobre 2023 certamente nuove chiavi di lettura si imporranno a definire una specificità dell’ebraismo italiano così potentemente rappresentata in un libro necessario.


Anna Foa – Gli ebrei in Italia. I primi 2000 anniLaterza, 2022 – (p. 312,  € 24,00)

Sinagoga Bet Alfa