Israele, verso un regime teocratico?

di Giorgio Gomel

 

Giunta alla quinta tornata elettorale in appena tre anni, Israele ha confermato il primato di Binyamin Netanyahu, premier con continuità da 12 anni, interrotta soltanto dal governo di coalizione Bennett-Lapid  al potere per poco più di un anno, nonostante le imputazioni che gravano su di lui per corruzione e abuso di fiducia.  Oggetto della contesa elettorale è stato dunque anche il futuro di Netanyahu; le elezioni si sono risolte in un referendum sul suo conto, una distorsione delle norme di una democrazia compiuta dove, se si è colpiti da un’incriminazione, si è soggetti ad un processo, non ad un’elezione.

I temi cruciali per il paese – un accordo di pace con i palestinesi che soddisfi il loro diritto ad uno stato indipendente, il rispetto dello stato di diritto, il legame complesso e contorto fra religione e politica, con il potere dominante delle autorità religiose in materia di diritti civili e di famiglia, le disuguaglianze socio-economiche – sono stati largamente elusi. Solo la sinistra ebraica e i partiti arabi, pur deboli e  frammentati, hanno evidenziato il dilemma che incombe sul futuro del paese. Per la sinistra la sconfitta è stata immane, dal 10% dei suffragi nel marzo 2021 al risultato di oggi, con i laburisti che ottengono solo 4 seggi e il Meretz escluso dalla Knesset, appena al di sotto della soglia di sbarramento del 3,25%. In parte i suoi elettori hanno optato per un voto strategicamente utile in favore del partito di centro  Yesh Atid del premier uscente Lapid. Resta un senso di tragico sconforto nel pensare a due partiti tra i padri fondatori del paese –  il Mapai e il socialista Mapam, poi fusosi circa trenta anni fa con il Ratz, partito connotatosi per la difesa dei diritti civili, dando luogo al Meretz – costretti alla quasi sparizione.  È fallito per ora il tentativo di alcuni  intellettuali ed attivisti progressisti di concorrere elettoralmente con un   partito arabo-ebraico  costituitosi appena alcuni mesi or sono ed ispirato ad un’azione politico-culturale di lungo termine che trasformi la psicologia dominante nel paese dal nazionalismo “etnico” di un Israele “Stato degli ebrei” ad un’identità civile ed egualitaria dello “Stato degli israeliani”.   Ma in un orizzonte di medio-lungo periodo la riscossa del centro-sinistra nel paese esige un’alleanza politica fra ebrei ed arabi per un futuro fondato su principi di eguaglianza e democrazia.

I partiti arabi in corsa hanno ottenuto un: 5 seggi per il binomio Hadash-Ta’al – comunisti e nazionalisti moderati – e 5 per il Ra’am, di orientamento islamista, conservatore in materia di diritti civili e sociali e partecipe della coalizione che ha retto il paese dal marzo 2021, prima volta nella storia di Israele. Tuttavia, il sentimento di frustrazione ed esclusione della minoranza araba, che soffre di disagio economico, penuria di case e infrastrutture ed una lunga ondata di crimine, si è tradotto comunque in un forte astensionismo, ancorché in misura ridotta rispetto alle elezioni del 2021: appena il 50% di quei cittadini- elettori ha votato.

Nel nuovo parlamento i partiti orientati ideologicamente a destra occupano circa 75 seggi su 120, sebbene almeno due di questi – “Israele casa nostra” di Lieberman e una parte del partito Unità nazionale, quella guidata dall’ ex Likudnik Gideon Sa’ar – appartengano al fronte anti-Netanyahu e abbiano forse attratto voti di elettori   spinti da questo fine comune più che dall’ideologia da loro incarnata.

La differenza in voti espressi fra il fronte pro e quello anti-Netanyahu è stata minima, appena 30.000 su oltre 4 milioni di votanti, meno dell’1% del totale; l’esclusione del Meretz e di un terzo partito arabo, Balad, ambedue appena al di sotto della soglia del 3,25% ha prodotto il risultato di 64 seggi per il fronte guidato da Netanyahu, contro 56 per gli oppositori.

Infine, il fatto più sconvolgente è dato dagli oltre 30 seggi su 120 ottenuti dalla destra religioso-fondamentalista, metà dei seggi sui quali potrà contare un governo capeggiato da Netanyahu. Circa 40 dei 64 membri della Knesset appartenenti alla futura, possibile coalizione sono ebrei ortodossi, di cui solo 9 donne, pari al 61 per cento contro il 17 per cento circa censiti come ortodossi nelle statistiche sulla popolazione complessiva del paese.  Una confluenza dunque delle correnti Haredi, un tempo fortemente antisioniste, e della destra nazional-religiosa le cui origini sono nel sionismo revisionista. Oltre ai due partiti – Shas e Ebraismo unito nella Torà – che riflettono tradizionalmente le istanze delle comunità Haredi o ultraortodosse e mirano ad imporre la loro concezione teocratica sul resto del paese, ha riscosso un successo eclatante la formazione detta “Sionismo religioso”. Nelle inchieste d’opinione la sua forza è maggiore fra i giovani, inclusi giovani Haredi ribelli al potere dei rebbe maggiorenti nei due partiti tradizionali.  Questa formazione è, in una delle sue componenti,  erede del  Kach, il partito  fondato da  Meir Kahane, alfiere del razzismo anti-arabo, che fu  escluso  per tale motivo dal Parlamento sul finire  negli anni ’80;  predica l’espulsione non solo dei palestinesi ma anche  degli arabi di Israele che non accettino un  test  di fedeltà allo stato, l’annessione dell’intera Cisgiordania, la discriminazione delle comunità LGBT, l’ingerenza del potere esecutivo sulla Corte Suprema e il sistema giudiziario violandone l’indipendenza e le norme dello stato di diritto, cruciali in una democrazia degna di questo nome.

Una coalizione segnata dalla forza egemone di partiti integralisti sarà spinta ad agire in senso fortemente regressivo sul piano dei rapporti fra religione e stato e del pluralismo religioso. Per esempio, sulla questione delle conversioni non-ortodosse ai fini dell’acquisizione della cittadinanza israeliana, norma imposta dalla Corte Suprema nel marzo 2021, o in tema di esclusione delle donne dalla sfera pubblica, di divieto alla presenza e ai riti organizzati da soggetti non ortodossi al Muro del Pianto, di finanziamenti alle scuole ultraortodosse. Persino sulla Legge del ritorno, limitando i diritti di alyah e cittadinanza, secondo quanto i partiti religiosi da tempo vanamente sostengono, a coloro che hanno almeno un genitore ebreo (dal 1970 la legge è estesa a coloro che hanno un nonno o coniuge di nonno ebrei).


Immagine: “Shabbas Protest by Haredim” by Scott Ableman (licensed under CC BY-NC-ND 2.0).