SPRAZZI DI MEMORIA. ALLA “CASA D’ITALIA”

di Franco Segre

 

ALLA “CASA D’ITALIA” DI LUGANO CON UMBERTO TERRACINI

Siamo di nuovo nel caos e nell’incertezza: tutti i rifugiati dall’Italia che si trovano nell’hotel Majestic di Lugano devono spostarsi per lasciare i posti a nuovi arrivi dalla Germania. In fretta e furia si raccolgono i bagagli per recarsi nella “Casa d’Italia”, una sede luganese di una scuola momentaneamente libera. Peccato! Ci eravamo abituati al Majestic e non prevedevamo questo trattamento ben differente dal precedente e, in cuor nostro, avremmo sperato di soggiornare in una sede migliore, se pure provvisoria. Ci chiediamo con rammarico ed invidia il perché i rifugiati tedeschi, nuovi arrivati, abbiano il privilegio di ottenere una sistemazione più comoda e funzionale della nostra. Comunque facciamo buon viso a cattivo gioco e ci adattiamo a ciò che ci viene imposto: locali più piccoli e male arredati, affollamenti nelle stanze, cucina e servizi raffazzonati, assenza di giardini o altri luoghi all’aperto, mancanza di libere uscite.

Visitiamo attentamente i locali: le aule sono disadorne, le altre camere sono ristrette e le cucine sono scomode. Dobbiamo adattarci e riprendere le abitudini di prima con pazienza e buona volontà. Al papà e alla mamma sono affidati i soliti lavori. La palestra della scuola è diventata sala di soggiorno: in un momento del mattino in cui è ancora deserta ammiro la mamma che per nostalgia della sua giovinezza si arrampica sulla pertica fino al soffitto e poi si compiace della sua abilità, illudendosi che nessuno l’abbia vista; ma la voce si è sparsa e alla sera a tavola tutti si congratulano con lei per la sua destrezza fisica che la fa arrossire di vergogna.

Tra i nuovi rifugiati c’è una persona illustre: Umberto Terracini. È fuggito anche lui in Svizzera dopo tanti anni di lotta politica antifascista, di esilio, di carcere e di resistenza partigiana. Ma qui solo pochi sanno apprezzare il suo valore: soltanto mio padre lo riconosce come vecchio compagno di scuola universitaria, con cui può intrattenere, come amico, interessanti conversazioni in dialetto piemontese di carattere economico o di rimpianto della vita trascorsa e delle lotte politiche in Italia. È un loro privilegio il parlare a voce alta e sfogarsi del trattamento svizzero senza essere capiti. Una volta scappa al papà una lamentela sulla loro fuga in Svizzera e sulla vita grama degli italiani sotto il nazi-fascismo. La replica immediata di Terracini è : “E chiel cosa ha la fait?”. Il papà ha incassato in silenzio la domanda! E non l’ha dimenticata.

Un giorno di settembre i rifugiati della Casa d’Italia sono trasportati in corriera in un campo coltivato non lontano da Lugano per fungere da mano d’opera nello spannocchiare meliga, in mancanza di contadini. Tutti gli adulti sono tenuti a partecipare all’operazione, che di per sé non è complessa, ma assai noiosa. Anche ai bambini viene concessa la facoltà di eseguirla ed io accetto di buona volontà, pur procedendo con maggiore lentezza per inettitudine. Trascorse due ore, alla fine del lavoro, c’è il compenso in franchi agli adulti e, con mia grande commozione, è concessa anche una paga ai bambini: ricevo così poche decine di centesimi, ma ricordo con fierezza ed orgoglio l’evento come il primo guadagno in denaro della mia vita. Conservo ancora quelle poche monete.