Un posto anche per sé
di Giorgio Berruto
L’identità è un fantasma maligno, di quelli che quando li vedi non ci sono e quando ci sono non li vedi. Un idolo, secondo l’etimologia: figura, immagine, illusione, pregiudizio. È certamente una categoria insiemistica che dice poco o nulla degli altri e molto invece di come vogliamo rappresentare noi stessi. Ma è anche e soprattutto una delle questioni politiche e sociali più rilevanti del nostro tempo.
Presso il museo ebraico di Amsterdam è in mostra fino a gennaio l’opera dell’israeliana Iris Hassid A Place of Our Own. Il titolo echeggia il saggio di Virginia Woolf A Room of One’s Own, in italiano Una stanza tutta per sé, in cui però l’inglese room non è soltanto stanza ma anche luogo di elezione, spazio di vita e perfino possibilità, come per esempio nella frase there is no room for doubt. Se Woolf rifletteva sull’assenza di donne protagoniste della letteratura e più in generale sull’assenza di indipendenza (a partire dalla negazione di un luogo tutto proprio: una room appunto), Hassid racconta la storia di quattro giovani studentesse universitarie nella Israele di oggi, tra 2014 e 2022. Samar, Saja, Majdoleen e Aya vengono dalla città di Nazareth e dai villaggi di Kafr Kanna e Kafr Qara, ma all’arrivo nella metropoli non tutto è facile per loro. Non lo è affittare un appartamento a Ramat Aviv, per esempio, non tanto per motivi economici quanto perché, come raccontano, sono arabe e questo per molti israeliani è un problema.
Le fotografie e i video in cui le giovani si raccontano sono accompagnate da cartelli in quattro lingue – olandese, inglese, arabo ed ebraico – a sottolineare la pluralità delle identità compresenti. Perché Samar e le altre sanno di essere cittadine di uno stato laico (anche se con grandi problemi di laicità) e democratico (anche se con crescenti movimenti di estrema destra e teocratici, anche parlamentari, che vorrebbero non lo fosse), però sanno anche di essere arabe e di condividere con gli abitanti dei territori occupati l’identità palestinese. In alcune foto vediamo angoli dell’alloggio finalmente affittato pieni di fotografie, qualche manifesto (ce n’è anche uno sionista con la scritta “Visit Palestine”), uno scaffale pieno di libri in più lingue e quei pochi altri oggetti che rendono tra loro simili le stanze degli universitari di tutto il mondo. Vediamo allo stesso tempo i dubbi, le lacerazioni, il senso di appartenenza e sradicamento, la duplice tensione di ritorno alla comunità di origine e di evasione verso un altrove – magari l’Europa e anche l’Italia – insieme a portata di mano (tre ore di volo) e lontano (un mare in mezzo). Samar racconta il dramma frequente delle famiglie separate, una parte in Libano l’altra in Israele, in mezzo un confine bloccato da oltre settant’anni, filo spinato, missili di tanto in tanto. Majdoleen, del cui matrimonio vediamo alcune scene, dopo una delle guerre tra Hamas e Israele (quale delle tante, tutte diverse e tutte uguali?) condivide il timore, la disperazione, il trauma: le pattuglie dell’esercito che sorvegliano il villaggio di origine, abitato solo da arabi, il razzismo e il terrorismo di bande di giovani nazionalisti ebrei le cui azioni rimangono troppo spesso impunite, ma anche semplici sguardi per le strade di Tel Aviv o domande dei compagni di studi, di volta in volta domande-ponte o domande-muro, domande che anche quando poste con le migliori intenzioni fissano i ruoli, le maschere, gli atteggiamenti. Aya, che solo di recente ha deciso di non indossare più il velo e dopo gli studi si è trasferita a Gerusalemme, ci accompagna per un breve tragitto, appena due fermate della metropolitana leggera, pochi minuti in tutto. Ma dalla porta di Damasco verso la città moderna il paesaggio e gli uomini cambiano a vista d’occhio, metro dopo metro, configurando uno spaccato perfettamente rappresentativo della società israeliana. Qual è il luogo che si può chiamare casa? C’è davvero un luogo di questo tipo oppure è una chimera, un sogno, e come tale impossibile a realizzarsi?
La mostra ospitata dal museo ebraico di Amsterdam è coraggiosa. Suscita dubbi, non annuncia certezze. Non arretra di fronte alla partecipazione di alcune delle protagoniste alle manifestazioni per la Nakba (il giorno della catastrofe, come l’establishment e la propaganda palestinesi definiscono l’indipendenza di Israele) e alla discussione critica della legge sullo stato-nazione del 2018, che tra le altre cose ha eliminato l’arabo come lingua ufficiale al pari dell’ebraico, ma soprattutto suggerisce percorsi non lineari dietro le decisioni e le posizioni prese. Una foto davanti a una bandiera con la stella di David porta Saja a subire insulti da parte di concittadini arabi. Ma come, la bandiera del nemico? È semplicemente la bandiera dello stato, risponde la giovane, un paese dove non mi sento a casa per molti motivi eppure lo sono, piaccia o no, comunque più che altrove. Per piccole comunità come quelle ebraiche in Olanda o in Italia la testimonianza della minoranza araba di Israele è una finestra preziosa per imparare a vedere l’altro, ma forse anche uno specchio su cui ritrovare tratti di sé. Dice Samar, oggi attrice in Israele, che prima dell’università, a Nazareth, non conosceva neanche un ebreo. A Ramat Aviv questo è cambiato, però allo stesso tempo è sorta l’esigenza nuova di frequentare coetanei e coetanee arabe. Di definirsi attraverso lo sguardo altrui e condividere il vissuto di appartenente a una minoranza, trovando un posto anche per sé in un paese pieno di energie, tensioni e difficoltà. “È interessante come tu ci vedi e come noi vediamo te”, dice a Iris Hassid, “questo è l’inizio di ogni soluzione – guardare l’altro lato”.
Photo credits: “Jewish Museum – Amsterdam (2)” by david55king is licensed under CC BY-NC-ND 2.0.