Via, ma dove?
di Francesco Moises Bassano
“L’antisemitismo è in aumento e, purtroppo, le istituzioni ebraiche nel continente devono investire sempre di più nella sicurezza. I dati mostrano che il 38% degli ebrei europei sta pensando di lasciare l’Europa perché lì non si sente al sicuro. È un peccato ed è responsabilità di ogni governo dell’UE proteggere i propri cittadini ebrei”. Così ha affermato Margaritis Schinas, responsabile della lotta all’antisemitismo alla conferenza annuale dell’Associazione Ebraica Europea (EJA) la quale si è svolta a Porto fra il 15 e il 16 maggio, con la partecipazione di oltre cento leader delle comunità di tutta Europa.
Le parole di Schinas confermano ciò che purtroppo sapevamo già e sentiamo affermare sempre più di frequente: dall’inizio del XXI secolo l’antisemitismo in Europa è aumentato a dismisura in tutte le sue forme, è diventato un fenomeno così visibile che ormai non sfugge neanche più alle istituzioni UE o a quelle dei singoli stati, le quali in passato hanno fatto spesso finta di non vederlo. Poco in fondo da stupirsi, con il diffondersi dei vari cospirazionismi amplificati dai mezzi di comunicazione, con l’avanzare delle “nuove” destre sovraniste e del fanatismo religioso – islamista, ma non solo – così vivo nelle periferie europee dove l’emarginazione è di casa, l’antisemitismo non poteva trovare terreno più fertile per crescere. Come ben sappiamo, l’antisemitismo non è un problema di questo secolo, ritenevamo erroneamente forse che nella contemporaneità non fosse più possibile, e ciò in parte ci stupisce. “Uno stupore” che è anch’esso come scrive Walter Benjamin nelle Tesi di Filosofia della Storia “tutt’altro che filosofico, non è all’inizio di nessun percorso conoscitivo”. Oltre ad essere spesso poco esaustiva una riflessione sulle cause dell’antisemitismo sembra mancare anche una capacità di escogitare delle proposte o dei metodi per contrastarlo. Rispetto invece al secolo scorso, quando almeno il mondo ebraico, senz’altro più consistente dal punto di vista numerico, aveva reagito con forme resistenziali come il bundismo, i movimenti reform, il sionismo, o l’utopia socialista ed internazionalista che idealizzava un mondo egualitario e quindi privo in teoria, un domani, di qualsivoglia differenza e discriminazione tra i popoli. Oggi la principale soluzione messa in campo da parte delle istituzioni comunitarie europee pare essere soprattutto l’investimento sulla sicurezza così da creare dei luoghi chiusi e protetti, contemporaneamente poco comunicanti con il resto della società, o altrimenti infine vengono agevolate nuove partenze e l’aliyah in particolar modo. Il concetto di doykeit “dove noi viviamo questa è la nostra casa e faremo di tutto per preservarla” ha preso il posto di tenere pronte le valigie e incentivare i più giovani a imparare meglio l’ebraico per avere così un futuro in Israele. Ciò crea in parte una contraddizione, perché oltre al problema concreto dell’antisemitismo, si assoda il concetto che in ogni caso non esiste, non può esistere un futuro ebraico in Europa, specialmente per le piccole-medie comunità. La conclusione è quindi che l’unico futuro ebraico potrà realizzarsi solo nelle grandi metropoli all’interno di gated communities o in Israele. Come per tutti gli altri fenomeni migratori, è un po’ “un serpente che si morde la coda”: meno persone, meno giovani, e quindi anche ridotta capacità nel presente e nel domani di reagire alle eventuali problematiche e minacce collettive. L’emigrazione correlata nello specifico all’antisemitismo riguarda in modo particolare i soggetti più religiosi o con un certo grado di osservanza, coloro che non si sentono più al sicuro nel vivere la propria identità/religiosità ebraica in Europa o che, a causa dell’indebolimento delle comunità, non hanno più la possibilità di viverla a pieno – anche solo per un discorso di kasherut o di difficoltà di uno shidduch (incontro tra giovani con la finalità di matrimonio).
Un altro tipo di emigrazione verso Israele (ma non solo) è quella per ragioni economiche, culturali o di studio, non prettamente legata all’antisemitismo, e riguarda per esempio i giovani ebrei italiani, o gli ebrei dell’America Latina o coloro che prima dell’attuale conflitto provenivano dalla Russia e dall’Ucraina. L’errore è quello di pensare la popolazione ebraica come un corpo omogeneo con le stesse tendenze e lo stesso modo di vivere la propria identità: quando si parla di emigrazione non è ben chiaro a quale tipo di emigrazione e a quali ebrei si fa riferimento nello specifico. Un ebreo di famiglia maghrebina della banlieue parigina sarà molto più esposto all’antisemitismo e quindi anche propenso all’idea di emigrare in Israele, non di meno per ragioni economiche, rispetto a un celebre uomo di spettacolo o un affermato chirurgo che vive nel XVIIe arrondissement.
Non viene granché preso in considerazione che lo svuotamento delle comunità e il calo della popolazione ebraica europea è soltanto in parte dovuto alle partenze e alle aliyot, questo è sì il fenomeno più visibile e quindi ritenuto più preoccupante, ma non è certamente l’unica causa. Esiste anche un’immigrazione invisibile che è quella di chi lascia le comunità, di chi di propria spontanea volontà o meno se ne ritrova fuori e diventa per lo più un soggetto difficilmente computabile nella demografia ebraica. I figli e i discendenti di coppie miste, tutti poi coloro che non condividono le scelte, le dinamiche, le politiche comunitarie o ricercano un’altra identità ebraica più distaccata dal culto religioso. Le ragioni possono essere personali, disparate, tra queste anche ovviamente il mero disinteresse nel far parte di un gruppo ebraico. Una questione che talune istituzioni, spesso trincerate in una visione sempre più rigida dell’ortodossia, in questi anni non sono apparentemente riuscite bene a valutare e a fronteggiare.
Dovremmo anche considerare che Israele, lo stato che è sorto in un mondo post-Shoà come rifugio per tutti gli ebrei in fuga dalle persecuzioni causate dai vari nazionalismi del XX secolo, osservando la situazione attuale, rischia esso stesso di trasformarsi in un paese trappola di una destra nazionalista e teocratica, quindi soltanto per e a misura di alcuni ebrei. Dove al contrario gli ebrei più progressisti, liberal, laici e secolari potrebbero un giorno trovarsi in difficoltà e non a proprio agio.
In confronto alla società degli anni ‘50 e ‘60 Israele è ai giorni nostri un paese con una minore attitudine nell’assorbimento e nell’integrazione dei nuovi ‘olim (immigrati), ciò a causa della globalizzazione, della fine dello stato assistenziale, e quindi soprattutto del tramonto della capillare struttura statalista di ispirazione social-democratica dominata al tempo dal partito Mapai e dal sindacato Histadrut. Le possibilità di emergere, di trovare lavoro o un’abitazione non sono ormai dissimili da quelle di un qualunque altro stato del mondo capitalista. A ciò si aggiunge poi il persistente prolungarsi del conflitto israelo-palestinese, privo per adesso di risvolti positivi all’orizzonte, con la minaccia quindi costante di attentati, lanci di missili ed episodi che possono degenerare in una violenza diffusa da un momento all’altro.
L’emorragia dell’ebraismo europeo, e quindi il virus dell’antisemitismo, allora potrà forse essere affrontata guardando al tutto, in una visione olistica e d’insieme, dove in Galut o in Israele, qui o altrove, lo “stato di emergenza” pur con le sue diverse sfaccettature resta sempre il medesimo, ed è appunto il mondo precario e facilmente infiammabile della contemporaneità.