di Paola Abbina

64 seggi su 120, a fronte del 48,4% dei voti ricevuti. Questa la maggioranza che si delinea per il prossimo governo Netanyahu che, oltre al Likud, prevede i tre partiti religiosi: il partito sionista religioso (haTzionut haDatit) e i due partiti charedi, lo Shas e lo Yahadut haTorà.

Lo Stato di Israele è capace di grandi sorprese, nel bene e nel male, ma è giusto ragionare nei termini di ciò che comunque appare più probabile e in ogni caso su ciò che questo risultato significa al di là di ogni dubbio: l’affermazione del Likud e del suo leader Netanyahu, il travolgente successo del partito sionista-religioso e il grande risultato ottenuto da Shas.
Ma andiamo con ordine: 64 seggi con meno del 50% dei voti significa che la percentuale di sbarramento, fissata al 3,25% ha avuto un ruolo determinante: sono rimasti fuori lo storico partito di sinistra Meretz, con il 3,16% di voti (dunque appena sotto la soglia e contrariamente ai sondaggi, che lo davano in bilico ma comunque dentro) e il partito arabo Balad, con il 2,91% (i sondaggi lo davano a molto meno), oltre a haBait haYehudì guidato da Shaked e ad altri partiti che non hanno mai avuto nessuna reale aspirazione ad entrare. La percentuale di sbarramento, istituita nel 1951, è andata crescendo nel tempo, dall’1% fino ad arrivare all’attuale 3,25% nel 2014. Ha decretato la fine di alcuni partiti, ha spinto altri a raggrupparsi, ma non ha certo portato Israele a un sistema di blocchi contrapposti sul modello americano né ha scoraggiato il nascere di nuovi partiti. Per rimanere in tempi recenti, il cambiamento introdotto nel 2014 ha portato come principale conseguenza alla strategica unificazione delle liste arabe in modo tale che la misura, probabilmente studiata proprio contro di loro, non avesse effetto. L’unificazione, tuttavia, non è durata nel tempo e, come già detto, Balad presentandosi da solo è rimasto fuori.

Analizzando i risultati delle ultime elezioni, la sinistra ha perso i seggi del Meretz, e i partiti arabi tutti i voti di Balad, mentre Yesh Atid di Lapid ha avuto la sua affermazione come partito, ma non come coalizione. Si potrà discutere all’infinito se fosse opportuno o meno allearsi con i partiti di sinistra, ma il risultato non cambierà. All’interno del “blocco-Lapid” è opportuno notare che Raam, il partito arabo che per primo ha avuto il coraggio di far parte di un governo israeliano, non è stato affatto punito dai propri elettori ma ha anzi visto crescere i propri seggi da 4 a 5. Un segnale importante che andrebbe letto con molta attenzione. Il “Machanè haMamlakhtì” di Gantz e Saar ha avuto 12 seggi, che non sono pochi e che ne faranno comunque un partito importante. Vedere questo partito come parte della coalizione-Lapid dimostra la reale connotazione di tale coalizione come “no-Bibi” invece che di “sinistra”: infatti, il Machanè haMamlakhtì non è affatto un partito di sinistra, è invece di destra, così come lo è Israel Beitenu guidato da Lieberman. Ecco dunque due conclusioni importanti: la stragrande maggioranza degli israeliani ha votato a destra ed è di destra; uno dei possibili motivi della sconfitta della coalizione-Lapid, oltre alla soglia di sbarramento segnalata sopra, è il fatto di essersi caratterizzato solo in chiave negativa anti-Netanyahu, senza reali proposte concrete.

L’affluenza è stata determinante: gli elettori del sionismo religioso e quelli di Shas sono andati in massa e compatti a votare. L’affermazione del sionismo religioso era attesa, al punto che nei giorni immediatamente precedenti le elezioni lo slogan era ormai “dobbiamo prendere il 15° seggio”. Un aneddoto, vero o verosimile, sottolinea invece l’importanza che le guide spirituali di Shas attribuivano a questo risultato elettorale: il messaggio telefonico rivolto alle donne a recarsi a votare vestite elegantemente, come per Shabbat, al fine di indurre gli uomini a fare lo stesso! Sia o meno dipeso da questo, Shas ha ottenuto molti più seggi di quanti gliene attribuissero i sondaggi. Anche Balad, nonostante alla fine sia rimasto fuori, ha visto un’affluenza inattesa. Si dice che sia stata provocata dalla previsione dell’affermazione di Ben Gvir, un piccolo assaggio di ciò che potrebbe essere un lungo periodo di enormi tensioni. Ben Gvir, leader del gruppo di ultra destra Otzma Yehudit (Potere ebraico) e oggi numero due di haTzionut haDatit, rifiutato dall’esercito per via delle sue posizioni estremiste e incriminato moltissime volte con l’accusa di incitamento all’odio, è entrato in politica nel 2021 proprio grazie a Netanyahu che ha di fatto legittimato Otzma Yehudit favorendone l’unione con il partito guidato da Smutrich già a capo della haTzionut haDatit.

Cosa ha determinato l’affermazione della destra? In primis, l’abilità politica di Netanyahu. Per prima cosa va notato che l’unione fra Smutrich e Ben Gvir, tutt’altro che scontata, è stata appunto opera sua. E soprattutto, è rimasto completamente indenne dai processi contro di lui, nonostante la gravità delle imputazioni. I giudizi qui possono essere molto diversi: ha un potere enorme, dicono alcuni, lo stesso potere che gli consente di stroncare ogni opposizione interna al partito. È l’unico capace di guidare il paese, dicono altri. In effetti questo è uno dei suoi slogan, slogan che riassume uno dei punti chiave di tutta la sua propaganda, riuscitissima a giudicare dai risultati: “Solo Bibi può”. O ancora più semplificato “Solo Netanyahu”. Ineguagliabile, inarrivabile, già prima di questa elezione il Primo Ministro più longevo (e dunque superiore, seguendo la logica molto semplificata che piace ai suoi elettori) perfino di Ben Gurion, è “re Bibi”. Interpreta e sposa perfettamente la voglia del potere forte, del re addirittura. “Che mi importa dei sigari, glieli vado a comprare io, basta che ci dia la sicurezza”. Così pensa l’elettore medio del Likud. Evidentemente una posizione che riflette un timore enorme: la paura del terrorista che si associa e quasi si confonde con la paura della sinistra, ma occorrerebbe riflettere sul come si crea e si è creato un simile clima di paura. La “sinistra”, ovvero gli elettori dei partiti anti-Netanyahu come spiegato sopra, hanno una grossa responsabilità in questo senso: alimentare il terrore di ciò che potrebbe fare un governo a guida Likud e con soli partiti religiosi non ha fatto che favorire il gioco di questi ultimi: paura contro paura, senza valori veri. Certo, si dirà, i partiti hanno una loro agenda per le case, per il caro-vita, per la sanità, per problemi sociali…sì, vero, l’agenda c’è, ma è rimasta completamente in secondo piano.

Pur nei limiti di una breve panoramica non si può omettere la constatazione che si tratta di una maggioranza (al momento in cui scrivo il governo non è ancora formato, dunque la maggioranza probabile, quella guidata dal Likud con i sionisti-religiosi e i due partiti charedì, Shas e Yahadut haTorà) composta prevalentemente da religiosi e molto povera di una rappresentanza femminile. È un inedito, una novità importante, che suscita timori spesso esagerati e quasi sempre pregiudiziali nella controparte. Ma anche in questo campo, non sembra che sia mai interessato a molti dialogare davvero. L’intesa Medan-Gabizon[1] è rimasta di fatto senza seguito. Perfino un’analisi di distribuzione geografica del voto -analisi certamente interessante che non può essere svolta qui- rischierebbe di mettere in mostra società sempre più monocolore, con città quartieri o piccoli centri dove “l’altro” è praticamente assente.

Infine, mi sembra comunque opportuno accennare a un problema di rappresentatività del sionismo religioso: il partito guidato da Smutrich è quello che si chiama con una sigla ormai diffusa “chardalnik”, ossia charedì-datì-leumì e cioè sionismo religioso incline a essere charedì. Certo è anche questa una semplificazione. Ma il fenomeno esiste. Una popolazione sempre più interessata a un’osservanza scrupolosa e rigida delle mitzwot e sempre meno aperta e inclusiva. La realtà è che una buona parte (la maggior parte?) del pubblico religioso non è così, non ci si identifica, ma lo sceglie comunque come partito per “assenza di alternative”. Questo problema di rappresentatività del sionismo religioso moderato/illuminato/aperto non è nuovo. Nell’ambito della rappresentanza rabbinica è fortemente presente già da anni, con una larga parte del pubblico datì (religioso) che non si considera rappresentata dai rabbini-capo israeliani. Ora questo problema di rappresentatività è arrivato in politica. Cosa ha spinto l’ex Primo Ministro Bennett a farsi da parte? L’essersi reso conto di non avere sufficiente appoggio? L’impossibilità di riproporre l’alleanza con Shaked? Le minacce di morte ricevute per sé e per la sua famiglia (passate sotto profilo fin troppo basso)? La disillusione rispetto a un governo di larghe intese? Domande sulle quali riflettere. Ma i giovani, e va sempre ricordato che Israele è un paese di giovani, cercano quasi sempre risposte forti, sicure, univoche: che il 20% del voto giovanile sia andato al partito di Smutrich e Ben Gvir è forse il dato più importante di tutte le elezioni.


[1] https://en.wikipedia.org/wiki/Gavison-Medan_Covenant

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