di Bruna Laudi

 

Leggere da anziani un libro scritto per una fascia di età molto inferiore è un’esperienza interessante: avendo deciso di recensire l’ultimo libro di Lia Levi Tutto quello che non avevo capito ho cominciato a guardare, come avrei fatto da bambina, la copertina e le delicate illustrazioni di Zosia Dzierżawska. È iniziato così un percorso a ritroso negli anni, grazie a uno stile comunicativo molto semplice e immediato: mi sono ricordata di quanti dei libri letti nell’infanzia sono rimaste impresse le immagini, che allora guardavamo attenti alle sfumature, in modo acritico, e che ci facevano uscire dal nostro mondo per entrare in quello dell’autore. Poi sono passata alla narrazione che esplora un mondo non molto raccontato, quello del “dopo”, quando la guerra è finita, i tedeschi non ci sono più e Lia è finalmente diventata una “bambina e basta”. La frase aveva dato il titolo a un libro precedente, edito nel 1994 e vincitore del Premio Elsa Morante opera prima, ed era stata pronunciata con fermezza dalla madre quando Lia, finita la guerra, aveva deciso di mandare un suo testo ad un concorso indetto dalla radio, con una lettera di accompagnamento che iniziava “Sono una bambina ebrea…” La madre stracciò la lettera con un laconico commento che sanciva la fine della clandestinità: Tu sei una bambina e basta!

Finita la guerra Lia, le sorelle e la mamma escono dal convento che le ha nascoste e tutta la famiglia, con il papà, si ritrova in un alloggio, con pochi mezzi e tutte le restrizioni dovute alle carenze di un dopoguerra in cui le infrastrutture sono da ricostruire.

Lia aveva sei anni quando le Leggi razziali l’avevano allontanata dalla scuola pubblica, ha vissuto la guerra, la clandestinità, i bombardamenti, la separazione dai genitori, anche se poi la mamma ha raggiunto lei e le sorelle nel convento delle suore. Alla fine della guerra ha tredici anni, è un’adolescente con tutte le problematiche tipiche dell’età e ora, ormai nonna, ci racconta con la freschezza e la semplicità, tipiche della sua scrittura, avventure, emozioni, scoperte, delusioni. Ci porta nella Roma del dopoguerra dove tutto è da ricucire: la libertà di movimento, le relazioni con i coetanei, lo studio. Dopo tanti anni, bisogna affrontare gli esami per essere ammessi alla classe che ci spetta, contemporaneamente studiare per il Bat Mitzvah (maggiorità religiosa delle ragazze) e tutto questo, uscendo dalla penna di Lia si trasforma in avventura: perché per andare dal vecchio rabbino si affrontano scale buie, confortati solo dal lume di una candela. Poi c’è la piazzetta, il ritrovarsi con i coetanei, le relazioni non sempre facili con vecchie e nuove amiche, gelosie e inganni, la difficoltà di fare la scelta giusta coerente con la propria etica in una situazione problematica. Delicata la scoperta del nuovo interesse per i ragazzi, mirabile la descrizione del bisogno di Lia, per certi versi ancora bambina, di adeguarsi all’amichetta più grande nella costruzione di una storia romantica che esiste solo nella fantasia ma che guida le due ragazze per le vie del quartiere.

Ma intorno al mondo intimistico dell’adolescenza si agita un altro mondo, quello politico degli adulti, c’è il referendum tra monarchia e repubblica e Lia scopre il suo interesse per lo spazio più grande che la circonda: e con il rigore della sua età divide il mondo tra le due fazioni, sacrificando anche qualche amicizia, per poi capire che forse ci sono delle sfumature e che si può provare affetto e amicizia anche con chi non condivide tutte le nostre idee.

Ma chi leggerà il libro avrà la possibilità di entrare nel mondo di Lia, dei suoi rapporti con gli adulti, delle sue riflessioni, delle ansie di fronte a scelte che per lei e per lo sviluppo della sua persona saranno fondamentali.

Tempo fa Lia mi ha contattato per comunicarmi il suo indirizzo per ricevere Ha Keillah, le ho ricordato di una sua visita a Pinerolo, tanti anni fa, per la presentazione di un suo libro in occasione della quale avevo conosciuto anche suo marito Luciano Tas. Da allora mi era rimasta la curiosità di conoscerla meglio e colgo l’occasione per chiederle un’intervista telefonica: accetta con entusiasmo e di seguito riporto la nostra breve conversazione.

 

Sei riuscita a essere una bambina e basta?

Non esiste vita senza lotta, bisogna stare all’erta, ma nel complesso ci sono riuscita. Come donna una lavoratrice e basta no, ho dovuto spesso accettare compromessi: quando dirigevo il giornale Shalom non ero osteggiata ma ignorata, si rivolgevano al giornalista maschio, Luciano Tas che era considerato il direttore effettivo.

Inizi il tuo ultimo libro con la mirabile descrizione della tua preparazione per il Bat Mitzvah, voluto con forza da tua madre

Nella mia famiglia si viveva un ebraismo laico, caratterizzato da un forte senso di appartenenza: mia madre era molto attaccata all’ebraismo anche se non eravamo osservanti, per lei era un’esigenza forte. Come per tutti l’esperienza della discriminazione e della persecuzione aveva rinforzato l’identità ebraica, dopo lo stupore iniziale: la mamma, in qualche modo allertata dalla fascinazione da me subita verso il cristianesimo nel collegio delle suore dove ero stata nascosta, sentiva l’urgenza di rimettere le cose a posto con il Bat Mitzvah: il meccanismo materno era molto chiaro ma io avevo superato completamente quella fase “mistica”.

Come sei arrivata alla direzione di Shalom?

Dopo la guerra entrai in modo attivo nella Comunità. Durante il liceo frequentai il Centro Giovanile Ebraico e tanti campeggi estivi: le atmosfere erano belle, l’ambiente rude. Per guadagnare qualcosa ho cominciato delle collaborazioni con un bollettino della Aliath Hanoar, agenzia che, dopo la guerra, si occupava del trasferimento dei giovani nella storica “terra promessa”, poi con il bollettino della Comunità di Roma e Fausto Coen, allora direttore di Paese Sera, mi chiese alcune recensioni per il giornale. Quando scoppiò la Guerra dei sei giorni, c’erano giornalisti che chiedevano notizie e in comunità hanno improvvisato un ufficio stampa per rispondere alle loro domande: grazie ai nostri legami con Israele eravamo un poco più informati. Nel nostro gruppetto c’era Alberto Bauman, artista e giornalista, che collaborava con diverse testate e propose di fare noi stessi un giornale in cui pubblicare in prima persona le notizie in nostro possesso. L’idea piacque alla comunità di Roma che accettò e finanziò l’impresa. Per nostra fortuna, l’addetto al bilancio fu abile nel trovare pubblicità per implementare le nostre finanze. A un certo punto il giornale doveva crescere per stare al passo della pubblicità che ci veniva proposta! Il giornalista Luciano Tas si è prima complimentato per la qualità del giornale, poi è entrato in redazione.

Confesso di avere un po’ sofferto perché sembrava che io non facessi nulla, ero troppo impegnata nell’organizzazione e nella redazione del giornale e mi mancava il tempo per firmare articoli: ma il piano editoriale era mio, ero io ad organizzare inchieste e interviste. Luciano provava un certo imbarazzo per questa situazione. Mi venne l’idea di lanciare un’inchiesta sulle spese pazze che venivano sostenute per organizzare i matrimoni e il rabbino Toaff si complimentò con Tas: “Che bella inchiesta!” D’altra parte, era così in tutti gli ambienti lavorativi: mia sorella era biologa al CNEN: quando, durante una riunione, si trattava di decidere chi facesse il verbale, tutti guardavano lei…

Come era orientato politicamente Shalom? Ci sono stati cambiamenti negli anni?

Eravamo una struttura laica, vicini a Israele ma non fanatici, direi centro sinistra. Eravamo odiati dalla destra che parlava degli eroici soldati e dalla sinistra perché non abbastanza critici nei confronti di Israele.

Inizialmente il giornale era laico ma c’è stata un’evoluzione in direzione più tradizionale e ha cominciato a esserci conflittualità.  Intorno alla metà degli anni 90 si creò una situazione imbarazzante: non si poteva farsi finanziare non condividendo le idee dell’editore. A quel punto decisi di lasciare.

Ho diretto il giornale per trent’anni dal 67 al 94-95. Rappresentava l’ebraismo romano ma non solo: eravamo molto attenti al mondo politico italiano. Non avevamo a disposizione i mezzi tecnici che ci sono ora: le corrispondenze da Israele arrivavano per posta!

Se tu dovessi dirigere ora un giornale in cui si parla di Israele?

Io non sono una giornalista, scrivo lentamente. Non riterrei giusta la difesa acritica di Israele ma sentirei la responsabilità di ciò che si rappresenta: per esempio, non ho mai pubblicato appelli. Un conto sono le mie opinioni personali che non ho remore ad esprimere, un conto è scrivere su un giornale che comunque rappresenta un gruppo.

Piuttosto, punterei sul significato di essere ebrei nella società: mi interessano lo sviluppo tecnologico, la creatività ebraica.

Personalmente mi preoccupa il fatto che, in Israele, la gran parte di ebrei religiosi hanno una istruzione limitata alla conoscenza e allo studio dei testi sacri e un’educazione scientifica praticamente nulla, tu cosa ne pensi?

Fa paura l’ebraismo fanatico, la creatività nasce in Israele ma preoccupa la parte oscurantista. Ma in Israele c’è la democrazia e si spera che ci siano dei cambiamenti, come è accaduto in America con la mancata rielezione di Trump. Non credo che si arriverà ad avere un governo teocratico, anche se sono preoccupata: nel caso dovesse succedere, spero che comunque non duri a lungo.

Sei una donna affermata, sei Lia Levi, non “moglie di”. Come ti poni nei confronti delle prese di posizione di alcuni ambienti femministi, per esempio rispetto alle tematiche relative al linguaggio (direttore, direttrice, direttora)?

Faccio parte di un gruppo che si chiama Controparola, un gruppo di giornaliste e scrittrici costituitosi nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini. Sono orientata a una certa sensibilità ma non sopporto l’accanimento sul linguaggio: il linguaggio non si cambia dall’alto, si forma e si evolve in modo libero. Dante non ha inventato l’italiano, ha espresso e utilizzato in modo organico qualcosa che già esisteva. Io per tutti ero direttore di Shalom e non ne ho mai sofferto; la questione dell’accanimento sul linguaggio si presta a “mangiare sé stessa” sono tiepida su questo, su altre cose no.

Quali azioni sarebbero necessarie per valorizzare una presenza femminile qualificata nella società?

Abbattere la differenza di retribuzione, lavorare sulle donne perché non si sentano un gradino più sotto: quante volte ho cercato di dissuadere donne a lasciare il lavoro perché “tutto lo stipendio se ne va in baby sitter”. Io rispondevo che questo sarebbe durato pochi anni, poi i figli avrebbero preso la loro strada e sarebbe rimasto un senso di vuoto. Occorre fortificarsi senza bisogno di esibizioni. Donne in politica? Adesso  ne abbiamo al potere nel mondo, in Europa e in Italia. Ma il mio punto di riferimento resta sempre l’energia creativa di Golda Meir. Quando sono brave devono valere e farsi valere e, prima di tutto, credere in sé stesse.

Leggi Ha Keillah? Ti chiedo un giudizio e dei consigli

Seguo la versione cartacea.

Giudizio e consigli: ultimamente lo preferisco, mi sembra meno ideologico che nel passato, è un giornale che porta anche contributi innovativi.

Aumenterei il carattere tipografico: la scritta piccola non invoglia alla lettura ed ha significato elitario, sembra suggerire “chi vuole conoscere deve soffrire”. La compattezza grafica è sicuramente dovuta a esigenze economiche ma riduce il numero di potenziali lettori. Anche i tascabili adesso sono scritti con caratteri grandi.

Nelle interviste consiglio di evidenziare le domande per permettere a chi legge di scegliere le parti che interessano. Il giornale deve essere leggibile e aperto, anche a costo di ridurre il numero degli articoli.

 

Lia Levi, Tutto quello che non avevo capito HarperCollins 2023, pp 207, €15

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