di David Calef

Il nostro redattore David Calef per lavoro si occupa di emergenze umanitarie. Facile trovarlo in Mozambico, Madagascar o Sudan del Sud. Da Aprile è in missione in Ucraina da dove ogni tanto manda ad Ha Keillah delle cartoline. 

1 – L’arrivo

All’ inizio di aprile sono arrivato a Kiev. Sono arrivato di notte con il treno da Lviv, giusto in tempo per raggiungere l’albergo prima del coprifuoco. Il coprifuoco scatta a mezzanotte. Nei giorni seguenti ho imparato che è importante tornare a casa prima, perché dopo le dieci e mezza  i taxi diventano scarsi, la metro chiude e bisogna farsela a piedi. Il che non è un problema se il cielo è sereno: anche questo l’ho imparato presto – Kiev è una città dove passeggiare è un piacere sconcertante.  I marciapiedi sono larghi come autostrade e nei fine settimana ho camminato per ore stordito a guardare le facciate dei palazzi art nouveau. Al contrario di quanto mi immaginavo quando ero ancora a Roma, ho visto pochi edifici distrutti o danneggiati. Le squadre di soccorso e pulizia sono diventate esperte nel rimuovere rapidamente macerie e morti.

N.B. Limpido/Sereno: significa che non cade pioggia e soprattutto droni Shahed e missili.

 

2 – Le Notti bianche

Dicevo del coprifuoco. Scatta a mezzanotte, ma già alle dieci di sera – l’orario di chiusura dei ristoranti – per strada circola pochissima gente. Dopo le 22:30, quando partono le ultime corse della metro, se mi affaccio alla finestra, per scorgere uno dei rari passanti posso aspettare dieci minuti e più. Alle undici, anche con le finestre aperte non si sente una macchina e mi addormento in un silenzio inconsueto per una metropoli di 3 milioni di abitanti. Ma prendere sonno nella quiete di Kiev si rivela un’illusione precaria perché a notte inoltrata arriva l’ora dei missili supersonici e dei droni iraniani.

Non sempre, ma quasi sempre.

A partire dai primi giorni di maggio, la Federazione Russa ha intensificato i bombardamenti sull’Ucraina concentrandosi su Kiev come non facevano da mesi (oltre 20 attacchi in un mese).

La sveglia una volta te la danno le sirene che per strada annunciano il raid imminente, oppure l’app su Signal che ti dice quanti aerei Mig-131 sono in volo verso l’Ucraina, se la Russia ha lanciato i missili dal Mar Caspio o dal Mar Nero. L’app, prima ti informa su cosa sta arrivando, quali sono i bersagli più probabili e poi, a seconda del livello di pericolo stimato, ti invita o ti ordina di rifugiarti nel bunker più vicino.

Ma le notti che non si scordano più sono quelle in cui le esplosioni ti fanno saltare giù dal letto alle tre di notte. In cui senti i boati dei missili delle batterie Patriot che intercettano a mezz’aria i razzi balistici russi e scorgi le scie che ne confermano l’abbattimento. Il 16 maggio, l’allarme è squillato alle 3:03. Non l’ho sentito perché il cellulare era in un’altra stanza. Sono state le esplosioni a svegliarmi. Otto, dieci, forse di più. Non ero abbastanza sveglio da contare con precisione. Neanche pronto a prendere la prima decisione importante della giornata: andare o non andare al rifugio. Un’ora più tardi l’allarme è rientrato. Durante la giornata ho appreso come tutti che la Russia aveva lanciato sulla città un po’ di tutto: missili Khinzal, Iskander e Kalibr. Più la solita manciata di droni. La sera neanche il tempo di addormentarsi al silenzio del coprifuoco che si è ricominciato. Altro allarme, altro bombardamento. Altri missili, stavolta dal nome sconosciuto. A Kiev, le notti di maggio sono passate così.

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