Il caso scandaloso del manuale di filosofia per licei

di Giorgio Berruto

 

Ci hanno studiato sopra milioni di studenti del triennio dei licei da decenni a questa parte. Molti si sono rotti la testa finendo per usarlo solo per il ripasso dopo aver studiato per bene sugli appunti presi a lezione. Almeno fino ad anni recenti, quando ne è stata fatta una nuova versione molto semplificata sia nella struttura sia nella formulazione di ogni singola frase o quasi, un testo più facile e amichevole ma anche meno affascinante – ma la prospettiva è di chi, nel frattempo, è passato dall’altra parte della barricata, cioè della cattedra. L’edizione più recente è quella del 2021 edita da Pearson Paravia con il titolo La filosofia e l’esistenza. Gli autori sono Nicola Abbagnano (tra le principali voci dell’esistenzialismo filosofico in Italia) e Giovanni Fornero, ai quali si aggiunge per la nuova versione Giancarlo Burghi. È senza dubbio il manuale di filosofia più adottato nei licei italiani da molti anni a questa parte, a parere di chi scrive nel complesso un buon libro.

Se tra le molte sorgenti della civiltà europea cerchiamo di individuare le due più importanti  indichiamo senza dubbio Atene e Gerusalemme. Però il liceo, non solo classico, si concentra sulla prima mentre ignora pressoché totalmente la seconda. Limitate eccezioni sono rappresentate da possibili libere iniziative degli insegnanti di religione cattolica, disciplina come noto facoltativa; un capitoletto di storia il primo anno sull’ebraismo antico che di solito presenta più che discutibilmente una sintesi del testo biblico, preso acriticamente come se fosse un libro di storia mentre non lo è affatto – pur essendo ricco di informazioni storiche; e qualche cenno al momento di introdurre il discorso sul cristianesimo e la filosofia il terzo anno. Quest’ultimo è il caso che qui mi interessa sulla scorta del mitico Abbagnano-Fornero. Per brevità citerò da ora semplicemente Abbagnano, come risulta dal colophon autore del capitolo in questione. Inutile aggiungere che tutti i virgolettati provengono dal testo.

Il termine geografico che viene scelto è quello di Palestina. Discutibile, visto che all’epoca di Gesù non era un toponimo in uso, ma niente di sconvolgente poiché oggi in uso certamente lo è. Il termine viene anche spiegato in un apposito box che richiama la storia recente, e in particolare la spartizione del territorio prevista dall’Onu con la risoluzione del novembre 1947, il “mancato rispetto” della risoluzione stessa (da parte di chi, non viene però detto) e di conseguenza il “conflitto permanente” tra popolazione araba ed ebraica. Dare un aggancio alla contemporaneità è un’idea interessante dal punto di vista didattico, forse però sarebbe stato opportuno specificare chi rifiuta e chi accoglie il piano dell’Onu, radice del conflitto. Ma passiamo oltre. Come vedremo il peggio è ancora tutto da venire.

Il “Vecchio Testamento”, scrive Abbagnano e leggono gli studenti, è redatto tra il 1300 e il 100 a.C. Oggi in realtà sappiamo che la redazione dei testi della tradizione biblica ebraica comincia molti secoli dopo il 1300, anche se comprende brani antichi – forse non proprio così antichi ma comunque risalenti almeno all’inizio del I millennio. Il problema vero però non è questo, bensì la scelta dell’espressione “Vecchio Testamento”, evidentemente svalutativa e subordinante rispetto al “Nuovo”, quando ormai molti teologi cristiani preferiscono parlare di “Primo Testamento”. Resiste oggi nell’uso “Antico Testamento”, che comunque è molto meno penalizzante nei confronti della tradizione ebraica rispetto a “Vecchio”. Un paio di scarpe è vecchio quando non serve più, quando è da buttare. Ma Abbagnano sceglie appunto “Vecchio”. L’autore passa a descrivere il cristianesimo, cioè “la religione fondata da Gesù di Nazareth” e quindi lo stesso Gesù, il “fondatore del cristianesimo”. Il concetto viene ribadito più volte nell’arco di poche pagine. Nessun dubbio: Gesù ha fondato la religione cristiana. Inutile sottolineare che non esiste storico delle origini cristiane che accetterebbe oggi qualcosa di simile. Gesù è vissuto ed è morto da ebreo, e da ebreo osservante, senza immaginare di fondare alcuna nuova religione. Lo stesso termine “cristianesimo” appare nelle fonti soltanto più tardi, con prime isolate occorrenze in Ignazio di Antiochia nel II secolo ma la vera e propria affermazione addirittura duecento anni dopo; l’uso che ne fa il manuale è dunque anacronistico. Viene specificato poi che Gesù “presenta sé stesso come figlio di Dio, inviato dal Padre”, una questione come minimo controversa su cui invece a quanto pare Abbagnano non ha dubbi. Gesù “nasce a Betlemme”, e anche qui nessuno studioso potrebbe concordare. La tradizione della strage degli innocenti, la nascita nella mangiatoia a Betlemme e la fuga in Egitto non compaiono nelle fonti più antiche, del tutto indifferenti alla nascita di Gesù, ed è relativamente tarda. È accettato trattarsi di inserti che da un lato vogliono presentare Gesù bambino come un nuovo Mosè – la strage e la salvezza rocambolesca, l’Egitto – dall’altra legarlo alla discendenza di David che viene da Betlemme e giustificare nella sua figura il realizzarsi delle visioni dei profeti. In particolare il riferimento a Betlemme consente di considerare compiuta la profezia di Michà (Michea), che aveva vaticinato: “Betlemme […] da te uscirà la guida di Israele”, e per questo viene adottato da Matteo e Luca al momento della composizione dei loro vangeli ottanta-novanta anni dopo i presunti fatti. Non esiste inoltre alcuna fonte o testimonianza esterna o interna alla Bibbia cristiana che autorizzi a legare a Betlemme la vicenda successiva di Gesù, la cui figura storica gravita nella regione della Galilea e intorno al lago di Tiberiade prima della salita a Gerusalemme per Pesach che si concluderà con la morte. Niente Betlemme dunque, a meno di trasformare una lezione di filosofia per liceali in un catechismo, cosa in sé certamente legittima a patto che venga a svolgersi in altro luogo.

Il manuale prosegue sostenendo che Gesù da qui “parte per diffondere un nuovo e universale comandamento divino (in sostituzione dei rigidi precetti morali ebraici)”. Come sappiamo, Gesù al contrario predica con forza proprio l’osservanza dei “rigidi precetti morali ebraici”. Sul fatto che Gesù sia ebreo ci siamo, vero? Ma vediamo che cosa dice questo “nuovo universale comandamento divino”. Abbagnano lo spiega subito dopo: dice precisamente “a tutti gli uomini di amarsi come fratelli”. Quindi abbiamo da una parte rigidi precetti morali, dall’altra l’amore fraterno universale. Se a questo punto, caro lettore, ti stai chiedendo se salterà fuori anche il Dio ebraico vendicativo non hai che da continuare fiducioso a leggere. Il peggio arriva sempre con puntualità svizzera. Il libro prosegue chiarendo che Gesù è “inviso alle potenti caste sacerdotali ebraiche” e che (forse per questo?) viene arrestato e crocifisso. Ma crocifisso da chi? Singolare omissione, non viene detto. Dai romani, suggerirà qualcuno e con ragione. Il testo però non lo specifica e fa seguire al periodo sulle “potenti caste sacerdotali ebraiche” – la lobby ebraica dell’epoca? – la descrizione di arresto e morte di Gesù. Se due più due fa quattro, è evidente che un lettore fiducioso, per esempio uno studente di liceo, non potrà che attribuire proprio alle “potenti caste” la responsabilità della crocifissione. Ed ecco il deicidio.

Non è finita. Ora tocca ai farisei. Ci si poteva davvero illudere che mancassero all’appello? Nossignore, un box appositamente dedicato spiega per bene di chi si tratta, cioè di “una delle correnti più diffuse e potenti dell’ebraismo”. “Potenti”, ancora. Aggiunge poi che dalla dura critica di Gesù nei loro confronti “deriva il significato comune del termine ‘fariseo’, che talvolta viene usato come sinonimo di ‘falso’, ‘ipocrita’”. Anche la parola “rabbino” viene talvolta usata come sinonimo di “tirchio”, “avaro”. È per questo lecito adoperarla in tal senso? È peraltro dubbio che l’uso di “fariseo” come insulto sia oggi ancora tanto comune – quantomeno c’è da sperarlo vista la carica di ostilità antiebraica che contiene. Questo senza considerare il fatto che Gesù in persona appartiene all’ambiente dei farisei, anzi con ogni probabilità è un fariseo particolarmente rigoroso, o se si preferisce con un piccolo anacronismo un rabbino, poiché così verranno chiamati i farisei qualche decennio più tardi. Il fariseo Gesù dice non solo di non modificare di una virgola la legge, cioè la Torà e le mitzvot, le sue regole, ma sottolinea anche che non basta applicare le regole meccanicamente, occorre farlo con tutto il proprio cuore, la propria anima e le proprie forze. Gesù non rimprovera chi osserva troppo la Torà, ma chi la osserva troppo poco e superficialmente.

Diamo qualche altro assaggio dal manuale. Come titolo di un paragrafo campeggia “Il superamento del messaggio ebraico”. In una prospettiva di ortodossia cristiana – che non dovrebbe comunque essere quella di un libro di filosofia per le scuole – bisognerebbe parlare di completamento, non di “superamento”. Diversamente avremmo un esempio di marcionismo, quella dottrina diffusa tra II e V secolo, rifiutata e combattuta dalla Chiesa, secondo cui il dio dell’Antico Testamento è solo un demiurgo malvagio, a cui si contrappone il dio del vangelo, di cui Gesù è figlio. Marcione, va da sé, rifiutava in toto la tradizione ebraica, considerata superata. Il manuale poi spiega in che cosa consista questo supposto “superamento”. “La predicazione di Gesù, se da un lato si collega alla tradizione ebraica, dall’altro la rinnova profondamente”, cosa anche questa come minimo fuorviante perché Gesù non “si collega alla tradizione ebraica” ma vive e opera pienamente all’interno di essa. Il chiarimento che segue peggiora le cose: mentre per la tradizione ebraica “Dio aveva eletto gli ebrei come destinatari privilegiati del proprio messaggio”, Gesù “allarga l’orizzonte dell’annuncio profetico, estendendolo a tutti i popoli della terra”. Eppure Abbagnano dovrebbe sapere che è Paolo, e non Gesù, a rivolgersi per primo anche ai non ebrei, rompendo per questo con il gruppo di Gerusalemme guidato da Giacomo fratello di Gesù. Questa disputa interna ai fedeli avviene circa venti anni dopo la morte di Gesù e conduce Paolo a elaborare una complessa e affascinante teologia.

Altro titolo di paragrafo è “La nuova legge dell’amore”. Mentre per gli ebrei Dio è “ministro di quella giustizia inflessibile e vendicativa”, per questo anacronistico Gesù cristiano è “fonte inesauribile di amore”. Vendetta contro amore, un classico. Al che segue come ciliegina sulla torta: “Alla legge del Vecchio Testamento, sintetizzata un po’ semplicisticamente nel detto ‘occhio per occhio, dente per dente’, Gesù oppone la nuova legge dell’amore universale”. Se diamo peso all’inciso (“sintetizzata un po’ semplicisticamente”) sembra che l’autore si sia reso conto almeno in parte di semplificare. Non è però evidentemente bastato a comprendere che forse la frase per intero andava modificata. Inoltre non è davvero chiaro chi qui sintetizzi in modo “un po’” semplicistico: l’autore che si rende conto della propria incompetenza (ma allora perché non modifica il testo?) oppure Gesù che fa di tutte le erbe un fascio per motivi polemici oppure ancora i farisei custodi di questa terribile e vendicativa legge? La frase rimane ambigua.

Dopo aver presentato in questo modo Gesù, proiettando in modo acritico e in sostanza inattendibile alcune delle descrizioni dei vangeli sinottici, il libro passa al Vangelo di Giovanni. L’autore è presentato come “l’apostolo Giovanni […] ovvero uno dei dodici uomini che seguirono Gesù da vicino, giorno per giorno”, ma la critica biblica esclude che chi ha composto questo testo tra il 90 e il 110 possa essere davvero quel Giovanni. L’uso di attribuire testi a personaggi illustri è attestato in numerose opere ebraiche e giudeo-cristiane precedenti, contemporanee e successive, e si ritrova anche in altri testi confluiti nel Nuovo Testamento. Attribuire a un autore del passato remoto o mitico un’opera, in un’epoca che ignora il principio moderno di autorialità, è il modo più diffuso per accrescerne l’autorevolezza. Nella civiltà ebraica precedente e coeva vengono attribuiti scritti a personaggi mitici come Enoch, Abramo e Mosè, e già da secoli allo stesso Mosè viene riconosciuta la paternità dell’intera Torà – con l’eccezione delle ultime righe che ne raccontano la morte.

Soltanto dopo aver parlato di Gesù, dei sinottici e di Giovanni, il libro affronta la figura e l’opera di san Paolo. Perché non viene rispettato l’ordine storico della redazione delle opere, in base a cui dovremmo vedere prima le lettere paoline autentiche, poi Marco, a seguire Matteo, Luca e gli Atti e infine il corpus giovanneo e le lettere non paoline? Evidentemente perché Abbagnano considera tutto il Nuovo Testamento non come una serie eterogenea di scritti redatti da persone diverse con esigenze e visioni diverse in tempi e luoghi diversi sulla base di materiali diversi ma come un monolite piovuto dal cielo. Quindi segue lo svolgimento dei fatti partendo dall’inizio, cioè dalla mangiatoia di Betlemme, come se i tanti autori di questo meraviglioso corpus letterario fossero in fondo un solo, unico grande autore. Ancora una volta, è una visione forse adatta al catechismo ma non storica, o almeno non rappresenta la visione degli autori dei testi ma al massimo quella di chi ha organizzato e definito il canone secoli più tardi, in un’epoca in cui il cristianesimo è diventato religione dell’impero romano. Non sarebbe male anche un’occhiata ad altre fonti giudeo-cristiane, quelle che troviamo nei testi che non sono stati inclusi nel canone cristiano ma considerati apocrifi, per esempio il Vangelo gnostico di Tommaso che contiene materiali antichi, grossomodo contemporanei a quelli utilizzati da Marco, il primo dei sinottici. Invece viene seguita la successione canonica del Nuovo Testamento, che nella forma e nell’ordine in cui oggi lo leggiamo è un prodotto tardo del IV secolo. Per il resto, anche Paolo viene descritto acriticamente. Per esempio leggiamo che “fu un accanito persecutore di cristiani” prima della famosa conversione sulla strada di Damasco. Che sia stato davvero “persecutore di cristiani”, per di più accanito, è lo stesso Paolo a dirlo, anche se molti studiosi oggi sospettano che sia un modo per enfatizzare la propria rinascita nella fede in Gesù, cioè la conversione damascena modello di tante altre successive conversioni. Ma c’è un errore più grande in questa frase e un po’ ovunque nel capitolo. Paolo non poteva essere “persecutore di cristiani” per il semplice motivo che non esistevano i cristiani all’epoca. Coloro che seguono Gesù (la prima generazione) e coloro che come Paolo non lo hanno conosciuto direttamente (la seconda generazione) e almeno ancora tutta la generazione successiva (la terza) nella quale la componente di non ebrei di nascita rapidamente cresce definiscono sé stessi “fedeli” o “seguaci” di Gesù. Il termine “cristiano” è attestato soltanto a partire dagli anni a cavallo tra I e II secolo in tre luoghi testuali – due negli Atti degli apostoli e uno nella prima lettera di Pietro – sempre con il chiaro significato di seguace di Gesù Cristo, non certo quello di appartenente a una ben definita religione costruita sulla base di dogmi e dottrina. Come già abbiamo visto, il termine “cristianesimo” è ancora (molto) più tardo. Non si tratta di una distinzione solo terminologica, anche se basterebbe a rendere la cosa degna di essere segnalata. L’assenza del concetto di “cristiano” denota una fase di complessa costruzione identitaria che prende molte forme di cui la maggior parte verrà rifiutata e più tardi considerata eretica. Per riferirsi ai primi seguaci di Gesù gli studiosi rigorosi utilizzano espressioni come “i fedeli”, oppure parlano di comunità paolina, di Giacomo, giovannea eccetera. Niente di tutto questo nel libro, per i cui autori a quanto pare il cristianesimo è nato già formato e adulto e al quale Paolo avrebbe semplicemente dato “chiara espressione di quei capisaldi concettuali della nuova religione”.

I testi fondativi delle religioni sono troppo belli perché siano lasciati a chi ne fa una lettura non storica, cioè fondamentalista. Vale per quelli ebraici e vale per quelli cristiani e vale certamente anche per i testi ebraici compresi e reinterpretati nel canone cristiano. Si potrebbe pensare che Abbagnano compia due errori. Da una parte descrive l’ebraismo e in particolare l’ebraismo di Gesù in modo riduttivo, dall’altra rinuncia – unicamente in questo capitolo – alla prospettiva storico-critica. A ben vedere l’errore è invece uno solo, l’oblio della prospettiva storica, da cui deriva una descrizione della tradizione ebraica antica parziale, scorretta e tutto sommato non accettabile. Sulle implicazioni didattiche di questo scempio non c’è davvero bisogno di insistere.

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