di Annalisa Di Nola

 

Il dipinto di Klimt noto come Giuditta II, ora custodito presso la Galleria internazionale d’arte moderna di Venezia, ha fatto di recente parlare di sé quando l’assessore allo Sport Renato Boraso ha riproposto di venderlo per finanziare il progetto del “Bosco dello Sport”. Molti ritengono che la modella del precedente dipinto, Giuditta I, fosse stata Adele Bloch-Bauer, moglie di un noto finanziere e industriale ebreo viennese. Adele ispirò molti altri famosi quadri di Klimt, fra cui La donna in oro e, a distanza di circa un secolo, sembra essere stata anche l’ispiratrice del personaggio fittivo di Gretl, che di lei conserva, nella rappresentazione teatrale di cui parleremo, il fascino e l’attraente bellezza dell’originale, pur differenziandosene in quanto non ebrea.

Dallo scorso ottobre il teatro Longacre, costruito nella Broadway newyorchese all’inizio del Novecento in stile neoclassico-francese, ospita Leopoldstadt, l’opera più recente del commediografo britannico Tom Stoppard, rappresentata una prima volta a Londra e poi interrotta causa pandemia (Stoppard è noto al pubblico italiano per sceneggiature di film quali Brazil o Shakespeare in Love.) Nonostante il prezzo elevato dei biglietti, il teatro è sempre pieno e le critiche generalmente molto calorose.

Leopoldstadt è un importante quartiere di Vienna che guadagnò il proprio nome nel 17° secolo, per onorare l’imperatore Leopoldo I, nativo della città stessa, il quale aveva avuto, agli occhi dei concittadini, il merito di aver espulso gli ebrei che di quella zona allora semiperiferica avevano fatto la loro casa. Meno di due secoli dopo, gli ebrei di lingua yiddish, in fuga dai paesi dell’est Europa, poveri e marginalizzati, si erano di nuovo stabiliti in quella zona, nota pertanto anche come mazzeninsel, isola della matzah. Era questo il centro della vita ebraica a Vienna, punteggiato di sinagoghe, frequentato dai personaggi dei romanzi di Roth, come da nomi illustri della Vienna novecentesca, quali Schnitzler, Freud e Schoenberg.

La commedia però, a dispetto del titolo, si svolge altrove, in un quartiere più altolocato della Vienna otto-novecentesca, dove Herman Merz, benestante proprietario di una fabbrica tessile convertitosi al cristianesimo e marito di Gretl, vive agiatamente con la sua famiglia, alla stregua di ogni altra famiglia borghese dell’epoca, godendo dei privilegi di una ormai diffusa assimilazione.

Animano lo spettacolo circa 24 personaggi interpretati da 32 attori di diversa età. Identico è il salone di casa scenario dell’azione, ma, durante i cinque atti, i mutamenti dell’arredo riflettono la mutata situazione storica che accompagna, tra il 1899 e il 1955, le vicende di quattro generazioni della famiglia Merz imparentata con gli Jakobovicz.

Significativamente, nella prima scena troneggia sullo sfondo un albero di Natale attorno a cui si adoperano adulti e bambini, uno dei quali pensa bene di apporre una stella di David in cima all’albero, manifestando così tangibilmente la confusione forse derivata -come ricorda la matriarca ebrea sua nonna- dall’esser stato battezzato e circonciso nella stessa settimana. Herman non è il solo ad aver contratto matrimonio misto in questa estesa famiglia di ebrei emancipati, colti e al passo con i tempi, ma è certamente il più eloquente e convinto nel sentirsi a pieno titolo cittadino di un’Austria progredita, cuore dell’Europa, intenta a coltivare le arti, la musica, la scienza, protesa verso un inarrestabile progresso. Un’Austria che aveva ormai bandito – secondo Herman- arretrate superstizioni e di certo si sarebbe in poco tempo scrollata di dosso i residui pregiudizi. A colloquio con il cognato Ludwig, appassionato teorico matematico, Herman deride le aspirazioni sioniste dei suoi contemporanei, a suo avviso non paragonabili nei loro obiettivi alla ricchezza culturale offerta dall’ambiente viennese. Dai suoi discorsi traspare un senso di distacco e di superiorità nei confronti dei più miseri e incolti ebrei provenienti dagli shtetl, attaccati a tradizioni superate e a un idioma così poco aulico ai suoi occhi, quale lo yiddish. È quello il mondo che i suoi antenati avevano abbandonato, grazie all’emancipazione offerta dall’imperatore Francesco Giuseppe, così che ormai gli ebrei potevano sentirsi uguali agli altri cittadini, andare all’Opera o avere Brahms a cena. E chi mai poteva d’altronde preferire un deserto di capre, da cui si diceva fossero provenuti i propri rozzi avi biblici, alla sofisticata società austriaca che di certo avrebbe promosso sempre più attivamente i propri ebrei, così pervasi di sentimenti patriottici e in procinto di essere accolti negli alti ranghi militari. Di ebrei, del resto, l’Austria non avrebbe più potuto fare a meno, visto il contributo essenziale e, percentualmente, tanto elevato rispetto al loro esiguo numero, da essi offerto in tutti i campi del sapere, delle arti, della letteratura e delle professioni socialmente indispensabili. Il cognato matematico esprime in tale occasione qualche perplessità, considerando le manifestazioni di antisemitismo presenti anche fra i rappresentanti e i partiti politici locali di maggior peso, ma sarà poi lo stesso Herman a dover sperimentare entro breve tempo una umiliante delusione, subendo in prima persona un oltraggio che colpirà direttamente il suo senso dell’onore e frustrerà inaspettatamente l’aspirazione data ormai per certa ad essere accolto nei circoli della società viennese che conta.

La famiglia cresce negli anni, pur col sacrificio della vita o di pesanti mutilazioni subite per la partecipazione alla Prima Guerra Mondiale. Veniamo a conoscenza di nuovi figli e nipoti; assistiamo a una scena di adulterio, ad un mancato duello, a un solenne Seder di Pesach, ai frenetici preparativi per una milah, occasione di nuovi incontri e di ilari, farseschi equivoci. I dialoghi fra i personaggi principali, pur non essendo altrettanto ricchi di riferimenti filosofici o di diatribe intellettualistiche come spesso accade nelle commedie di Stoppard, riflettono eloquentemente la complessità delle varie posizioni ideologiche in conflitto e i dilemmi culturali e politici della contemporaneità, grazie anche alla presenza sulla scena di interlocutori estranei alla famiglia.

Herman non si è mai perso d’animo e ha proseguito la sua ascesa socio-economica fin quasi alle soglie dell’Anschluss e della Notte dei cristalli. È proprio durante quella drammatica vigilia nel novembre del 1938 che incontriamo per l’ultima volta riunita la famiglia allargata, in condizioni precarie e in abiti dimessi, costretta ormai a convivere in un solo appartamento, essendo stati requisiti e arianizzati gli altri. Gli echi degli avvenimenti esterni si fanno sempre più persistenti e, in questo ambiente spoglio ormai di ogni ornamento, incluso il ritratto della bella Gretl (che a suo tempo aveva preso a pretesto le sedute con Klimt per concedersi un flirt), anche i proprietari, vessati e umiliati, vengono infine privati di ogni residuo possedimento, precipitando rovinosamente verso la catastrofe. Ancora in questa occasione, e in procinto di lasciare insieme agli altri l’appartamento non più suo, Herman rivela al cognato di esser riuscito a superare in astuzia le autorità naziste riguardo alle sue proprietà; gli spettatori potranno valutare fino a che punto le vicende seguenti confermeranno la sua opinione.

Dieci anni dopo la fine della guerra, i pochi cugini superstiti della famiglia, residenti in paesi diversi, si incontrano nella casa viennese deserta e disadorna, in occasione del casuale ritrovamento da parte di una di loro del ritratto di Gretl, un tempo appeso su quelle pareti e ora collocato alla Galerie Belvedere; motivo questo per intraprendere un’azione legale. L’atmosfera dell’incontro tra i cugini è carica del senso della perdita e dell’irreparabile. Ma il riconoscimento dell’identità espropriata della figura ritratta, indicata nel museo con un generico titolo anonimo, richiama una delle scene iniziali, in cui Emilia, madre di Herman ed Eva, sfogliando un album di foto di famiglia, lamentava l’incapacità di ricordare i nomi delle persone che non ci sono più, quei nomi che un tempo erano noti a tutti, mentre ormai quelle persone senza nome sarebbero destinate all’oblio, ad una seconda morte.

Di sicuro la perdita della memoria, e ancor più forse, la perdita tout court è un tema centrale in questo lavoro di Stoppard. Leo, il più giovane dei cugini riunitisi nell’appartamento di un tempo, aveva dimenticato tutto, di essere già stato lì, di essere ebreo, di avere parenti a Vienna. Viveva, secondo l’accusa del cugino Nathan, privo di storia, come un uomo che non proietti ombra dietro di sé. Cresciuto a Londra con il nuovo marito di sua madre del quale aveva ricevuto il cognome, Leo si era sempre sentito soltanto un bravo ragazzo inglese. Ma questo Leo senza più memoria è un personaggio chiave nella commedia e per l’autore della stessa.

Tom Stoppard, che insieme al premio Nobel Harold Pinter – scomparso ormai da 15 anni – va probabilmente considerato il più importante commediografo britannico contemporaneo, condivideva con il suo collega e amico origini ebraiche. Era infatti nato Tomáš Straussler nel 1937, nella cittadina cecoslovacca di Zlin, da genitori ebrei rifugiatisi, attraverso varie peripezie, prima a Shanghai, poi in India. In quest’ultimo paese la madre di Stoppard, rimasta vedova, si risposò per poi trasferirsi con i due figli a Londra. Tom Stoppard non sapeva di essere ebreo, o ne aveva solo un vago sentore, cui non aveva mai dato peso. Sua madre non amava parlarne, aveva preferito stendere uno spesso velo sul passato, forse per proteggere i propri figli da ulteriori sventure. Fu una lontana parente a raccontare a Stoppard, ormai sulla cinquantina, la sua effettiva identità e le vicende della loro famiglia quasi interamente perita nella Shoah, inclusi i quattro nonni dello scrittore.

È questa, dunque, la prima commedia di argomento ebraico scritta da uno Stoppard ottuagenario, se pure in gran forma; il primo lavoro in cui si riflette così vivamente la sua esperienza autobiografica, tradottasi nel personaggio alquanto ingenuo e sprovveduto di Leo, un Leopold Rosenbaum trasformato in Leonard Chamberlain. La cicatrice sulla mano di Leo, riconosciuta da Nathan che lo aveva visto ferirsi al momento dell’irruzione in casa di un burocrate nazista nel ‘38, contribuisce a fargli riaffiorare reminiscenze di eventi lungamente rimossi e repressi.

Leopoldstadt non era stato – dicevamo- il quartiere abitato dalle famiglie Merz e Jacobovitz ai tempi della loro florida e promettente esistenza. Vi arrivarono forse dopo la cacciata di casa nel ’38, che costrinse i loro membri per un certo periodo a concentrarsi nel vecchio ghetto abbandonato dai loro avi, ignari della prossima deportazione. Ma Leopoldstadt potrebbe considerarsi la città metaforica abitata da Leopold/Leonard/Tom in bilico fra rimozione, perdita e doloroso recupero di una memoria soffocata, di un tempo e di vite irrimediabilmente perdute. È la città simbolica di una storia stratificata di antisemitismo, cacciate, ritorni, ghettizzazioni, tentata assimilazione, integrazione, discriminazione e persecuzione.

C’è chi, abituato alle intricate tematiche filosofiche dei lavori di Stoppard, ha considerato il nuovo dramma troppo scialbo, la storia di una delle innumerevoli famiglie ebraiche colpite dalla Shoah, che tanti racconti ci hanno reso familiari, con in più magari, il fremito solleticante in noi provocato dal rilevare l’agnizione tardiva della propria identità repressa e insieme una forma di autocritica da parte dell’autore. Ma aldilà dei riferimenti autobiografici, che si rivelano principalmente nell’ultimo atto, bisogna riconoscere che la rappresentazione è il frutto di una meticolosa ricerca storica che uno Stoppard, già digiuno di ebraismo e dei suoi secolari sviluppi, si è curato di studiare approfonditamente preparandosi alla stesura, e i cui risvolti ha disseminato nei fitti dialoghi e nelle interazioni dei personaggi.

Se il ritratto klimtiano dell’immaginaria Margarete Merz (Gretl), e la causa per recuperarlo sono motivi chiaramente ispirati ad un paio di casi illustri, tutto il lavoro riflette la temperie dell’epoca rappresentata.  Risuonano gli echi di una Vienna fulgida e vibrante di attività culturali, di musica, di dibattiti intellettuali e politici come di imprese commerciali, per la quale gli ebrei più illustri costituivano il lievito imprescindibile, e che viene improvvisamente a perdere la sua centralità e le sue fonti di ricchezza con la fine dell’impero decretato dalla sconfitta militare del 1918. La novità della musica di Mahler, delle teorie di Freud, delle iniziative di Herzl vengono dibattute all’interno del mondo ebraico come nel resto della società viennese. Il senso di sicurezza e riconoscimento sociale acquisito da una comunità di ebrei borghesi i quali si ritengono assimilati e integrati si scontra con un’ostilità ancora diffusa, impersonata fra l’altro dallo storico sindaco antisemita Karl Lagerfeld o dal partito cristiano sociale in ascesa da lui fondato. Ma quel sentimento si oppone anche ad una consapevolezza offuscata della fragilità della propria condizione. Nella vivacità degli scambi dialogici fra i personaggi, si annidano i temi cruciali entro cui si dipana la storia familiare: sionismo verso assimilazione, tradizione e modernità, ebraismo più o meno autentico e ancora presente nella conversione al cristianesimo, memoria e oblio, consapevolezza e rimozione, tradimento e fedeltà, distanziamento e persistente attaccamento.

Ludwig, il matematico, nonno di Nathan, che seguirà la stessa carriera, ama proporre quiz aritmetici ai nipoti; dei numeri ama la razionalità e la teoria, piuttosto che una loro pratica utilità e forse i suoi discorsi mirano a sottolineare la non coincidenza fra la bellezza dell’astrazione razionale e l’irragionevolezza della realtà pratica, o storica. Tuttavia, quando i bambini giocano al ripiglino o gioco dello spago, Ludwig fa notare come dietro l’apparente casualità dei cambiamenti di forma, esista un ordine e come ogni cambiamento risalga al precedente che ne è causa. E inoltre i nodi dello spago restano costantemente alla stessa distanza fra loro. Ognuno può interpretare a piacimento questi fuggevoli cenni, che potrebbero però indicare il contrasto fra la causalità e al tempo stesso l’irrazionalità degli avvenimenti storici e delle loro conseguenze. D’altronde, come lo stesso Ludwig accenna in altro discorso, nella trasformazione delle forme, nel processo di assimilazione e di mimetizzazione, l’ebreo viene sempre considerato tale dagli altri, quei nodi non cambiano la loro posizione, la loro distanza fra loro; così come non cambia il legame fra Leo e i suoi parenti obliterati, nonostante i tentativi di annullarne la consapevolezza. Il nome del gioco in inglese è cat’s cradle: la culla del gatto, ma, a giudicare dall’aspetto, anche, magari, la sua trappola.

È chiaro che una rappresentazione teatrale così ricca di temi, addensati nel corso di un paio d’ore, ritmate dal susseguirsi degli avvenimenti e delle fitte conversazioni, richiede un buon livello di concentrazione da parte del pubblico. E non è sempre facile, con la presenza di tanti personaggi in scena, individuare l’identità di ciascuno e i rispettivi legami di parentela, nonostante la proiezione sul palcoscenico di uno schematico albero genealogico. L’impegno viene però premiato dall’assistere ad una splendida recitazione che dà vita a una narrazione commovente invitando alla riflessione che la storia suscita nello spettatore.

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