Intervista a Manuela Dviri

a cura di Anna Rolli

 

Manuela Dviri è nata a Padova nel 1949. A 19 anni si è trasferita in Israele, ha sposato un israeliano, si è laureata in letteratura inglese e francese presso l’Università Bar-Ilan e ha iniziato la carriera professionale come insegnante nelle scuole superiori e più tardi in un istituto per bambini mentalmente ritardati. In seguito ha lavorato all’Istituto di Scienze Weizmann nel campo delle relazioni internazionali. Il figlio Yonathan, soldato dell’esercito israeliano, fu ucciso il 26 febbraio 1988, durante la guerra in Libano. Da allora il suo impegno per la pace è stato intenso e ininterrotto. Oggi è giornalista e scrittrice e vive dividendosi tra Italia e Israele.

 Il penultimo governo d’Israele è stato una coalizione di centro, con partiti di destra e di sinistra, più uno arabo, e per circa un anno ha funzionato bene. Ma Netanyahu è una volpe, è in politica da decine di anni e non gli manca certo l’esperienza. Prima ha fatto cadere il governo “rubando” due dei 61 parlamentari della coalizione, passati dalla sua parte, poi ha avuto l’idea di riunire tre piccoli partiti razzisti e omofobi di estrema destra incentivandoli a presentarsi insieme alle elezioni. Il risultato è stato davvero eclatante e pauroso: ben 14 seggi che uniti al Likud, a Shas (religiosi sefarditi) e agli Haredim sono diventati parte di una coalizione di destra molto ampia di 64 seggi, la maggioranza. L’opposizione non è stata capace di fare altrettanto e così ha disgraziatamente perso i voti di Meretz che non è riuscito a superare la soglia di sbarramento. Il risultato è stato l’attuale governo di destra, di estrema destra e di “haredim”  (ortodossi).

Lo chiamano: Yiemin al malè “destra piena”, il più a destra possibile, con un primo ministro, Netanyahu, sotto processo per corruzione, frode e abuso di potere.

Non a caso il primo atto del premier è stato di “usare” Yariv Levin, il ministro della giustizia, per far approvare un pacchetto di leggi in base alle quali il governo potrebbe agire indipendentemente dalle delibere della Corte Suprema. Prendiamo come esempio due casi estremi. Se il governo decidesse che le elezioni non si tengono più ogni quattro anni ma ogni sette, la Corte Suprema non potrebbe stabilire che la decisione è illegale e che deve essere abolita; se un ministro venisse condannato per corruzione, come è successo ad Aryeh Deri di Shas, la Corte Suprema non potrebbe impedirgli di assumere di nuovo la carica di ministro, qualora il governo gliela offrisse.

Durante la propaganda elettorale non si era mai neppure accennato a queste leggi. Bibi e i suoi avevano dunque un piano, avevano preparato molte nuove leggi, ben 152, belle e pronte da emanare, tra cui alcune semplicemente incredibili, tutte antidemocratiche. Speravano, almeno all’inizio, che la popolazione non se ne accorgesse. A dimostrazione che non avevano tutti i torti, il capo dell’opposizione Yair Lapid affermò, subito dopo le elezioni, che non c’era da preoccuparsi più di tanto perché il prossimo governo (il suo!) avrebbe immediatamente abrogato le leggi anti-democratiche. Non aveva proprio capito nulla!

La popolazione, invece, si è accorta immediatamente del pericolo. 

I giovani che lavorano nell’high tech hanno intuito subito che senza  democrazia il rischio è la perdita di investimenti nell’intero settore dell’high tech.Gli investitori vogliono un paese che funzioni, un paese forte e democratico. Sono stati i primi a capire e, in breve, ce ne siamo accorti un po’ tutti.

Il governo, secondo le nuove leggi, avrebbe nominato anche i giudici. Avrebbe gestito un potere assoluto, sarebbe stata la fine della democrazia. In Israele non abbiamo il senato, non abbiamo la Costituzione e la Corte suprema è necessaria per abolire le leggi anti-democratiche, per porre limiti al potere politico e salvaguardare i diritti dei cittadini. 

Per ora abbiamo un unico documento al quale appoggiarci: la Meghilah azmaut, la Dichiarazione d’indipendenza letta da Ben Gurion, il 14 maggio 1948, che riporta le intenzioni e i principi con i quali fu fondato lo stato d’Israele e che, in futuro, si spera, potrebbe svilupparsi in una vera e propria Costituzione. 

E così, non avendo altra scelta, abbiamo iniziato a manifestare e ogni settimana aumentano i numeri e la creatività. Ci sono le ancelle vestite di rosso con il copricapo bianco che, ispirandosi al libro di Margaret Atwood Il racconto dell’ancella e all’omonima serie televisiva, rappresentano la vita delle donne, in una teocrazia totalitaria, sottomesse all’unico scopo di funzione riproduttiva; i rappresentanti dei LGBT con le loro bandiere variopinte; le bandiere rosa per la libertà delle arti, della musica e del teatro; le bandiere nere contro Netanyahu; i giovanissimi, gli anziani in sedia a rotelle, le giovani coppie con i bimbi in carrozzina; i medici per la democrazia; gli psicologi per la democrazia e così via… in un palazzo accanto al “London ministore”, al secondo piano, c’è un ragazzo che suona il pianoforte mentre dalla strada i manifestanti, seduti in terra, lo accompagnano cantando. Un’esplosione di energia che ti scalda il cuore e ti dà la forza di continuare e un mare di bandiere bianco-azzurre che sono diventate il simbolo della protesta. 

Ormai siamo alla sedicesima settimana e tutti i sabati sera alle 19.30, si scende in piazza e si manifesta, perché non c’è altra scelta e non ci è permesso fermarci. Lo si fa ovunque in Israele, come fosse un impegno di lavoro. Ogni settimana scendono in piazza circa 400.000 manifestanti, un numero enorme perché Israele ha meno di 10 milioni di abitanti. Anche una piccola percentuale di arabi manifesta, soprattutto a Haifa. Gli haredim e l’estrema destra naturalmente no, essendo al governo sono a favore di Netanyahu. E così si sono formate due forze contrastanti, la sinistra e i liberali del centro e centro destra contro la destra e l’estrema destra. Netanyahu, sempre più grigio in faccia, è preoccupato dalla protesta che lo segue ovunque ma continua a interessarsi solo del suo interesse personale e del suo bisogno forsennato di potere. Ormai si vede come una specie di re d’Israele, con moglie e figlio a rappresentare la famiglia reale. Di certo teme il processo, ha paura di venir condannato e di finire in prigione. È già successo in Israele. Un presidente Moshe Katsav e un ex premier, Ehud Olmert, sono stati condannati e hanno scontato una pena in carcere e l’ex ministro Aryeh Deri è stato condannato addirittura due volte. L’obiettivo di Bibi probabilmente era riuscire a cambiare i giudici del suo stesso processo. Non a caso Levin, il ministro della giustizia, è stato velocissimo nel tentativo di far approvare le leggi presentandole, giorno dopo giorno, senza interruzioni. Voci sostengono che avessero studiato il caso della Polonia, dove sono riusciti ad esautorare la democrazia. A differenza della Polonia, la protesta popolare in Israele è stata rapida, decisa, forte e soprattutto continua. Anche noi abbiamo imparato qualcosa dai polacchi.

Se le leggi fossero state approvate sarebbe stato pericoloso anche per l’esercito, al punto che Yoav Gallant, il ministro della difesa, ha ammonito pubblicamente il paese sul pericolo che stava correndo. Netanyahu il giorno dopo lo ha “licenziato” con un atto già di per sé dittatoriale. Nella stessa notte la protesta, del tutto spontanea e immediata, è stata talmente forte, decisa e soprattutto partecipata da costringere il premier a ripensarci e Gallant è rimasto al suo posto. 

Siamo in una situazione davvero strana, inimmaginabile solo poco tempo fa. Nei primi due mesi noi dell’opposizione a Bibi, eravamo tutti depressi, terrorizzati e preoccupati ma, da quattro mesi, da quando sono iniziate le manifestazioni per la democrazia, abbiamo capito che la situazione si può cambiare. L’iter di approvazione delle leggi è stato congelato ed ora sono in corso tentativi di trovare soluzioni per una Riforma giuridica accettabile, nulla a che fare con il colpo di Stato che si stava profilando. Abbiamo scoperto che non siamo burattini e che ci si può ribellare, che ognuno di noi ha dentro di sé la possibilità di cambiare il mondo e di combattere le ingiustizie. 

In questi mesi molte volte ho pensato che se, appena dopo l’emanazione delle Leggi razziali, tutti i presidi a cui avevano ordinato di espellere dalle loro scuole i bambini ebrei si fossero ribellati, non uno, ma tutti, forse la storia d’Italia sarebbe stata diversa.

La pace? Oggi, per la prima volta dopo molto tempo, sono ricomparsi alle manifestazioni i cartelli con la scritta:” Basta con l’occupazione”. Il vero problema, dicono molti, inizia con l’occupazione, perché se non sei democratico nei confronti di un altro popolo poi rischi di diventare non democratico anche con chi non la pensa come te nel tuo stesso popolo.

La pace vera e propria, al momento sembra davvero lontanissima e appare solo sui cartelli durante le manifestazioni, niente di più, però almeno per la prima volta dopo anni la parola è ricomparsa. È già qualcosa. Per questo, forse, dobbiamo ringraziare il tentativo autoritario dell’attuale governo perché ci ha costretto ad affrontare problemi che per anni abbiamo temuto di affrontare. Era ora!

E c’è anche chi non gode del lusso di poter dimenticare o di poter far finta di credere che alla fine tutto andrà bene. Sono i genitori dei caduti in guerra. 

Nel giorno del ricordo dei caduti, gli appartenenti ad un’organizzazione di famiglie palestinesi e israeliane che hanno perso parenti stretti a causa del conflitto, la Parents Circle Forum, si sono incontrati, come ogni anno, per celebrarlo in una cerimonia alternativa. La PCF riunisce circa 600 famiglie, secondo le quali il processo di riconciliazione è un prerequisito per raggiungere una pace duratura e le persone che hanno subito un lutto a causa del conflitto soffrono nello stesso modo, che siano israeliani o palestinesi, e vogliono la pace nello stesso modo avendo già pagato il prezzo della guerra. Chi ha perso un padre, un figlio, un fratello non vuole accettare che la guerra continui all’infinito, non vuole credere che non ci sia scelta e che la guerra sia l’unica realtà possibile.

Certo il nostro angolo di mondo non è proprio tra i più tranquilli. Sembra che gli iraniani, Hamas e Hezbollah credano, a causa della spaccatura interna, che il paese si sia indebolito e che sia più facile da attaccare e distruggere. Io credo di no. Forse addirittura paradossalmente è diventato più forte, più attento. Durante la settimana di Pesach c’è stata una prima prova di attacco contemporaneo da Gaza e dal Nord ma non ha funzionato. In caso di aggressione, tutti i soldati e i riservisti si presenteranno, come sempre è accaduto, per difendere la nostra vita e la vita dei nostri figli. Non nutro alcun dubbio, questo è chiaro a tutti noi, fa parte del nostro DNA. 

Per Yom HaAtzmaut, il giorno dell’Indipendenza, a Tel Aviv, in via Kaplan, la ormai storica strada delle manifestazioni, abbiamo festeggiato più che manifestato, cercando di dimenticare le paure e le notti insonni e abbiamo cantato l’inno nazionale, Hatikwa, La speranza.

Speriamo davvero di farcela. Sono quattro mesi che manifestiamo senza interruzione ed è un impegno a cui non rinunceremo, purtroppo per ora il governo non è caduto e Bibi non si è dimesso. Il rischio della dittatura è ancora in agguato. Nella vita quotidiana, nell’esercito, ovunque. Ci è proibito fermarci, assolutamente proibito. Neppure per un giorno. 

 Vignetta di Davì

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