di Emanuele Azzità

Gabriele Levy, l’ingegnere-scultore di lettere ebraiche, cita spesso Abraham Joshua Heschel: gli ebrei sono gli abitanti del tempo! Il concetto di tempo è associabile a uno stato di perenne incertezza e di instabilità consolidata. È in antitesi con un altro concetto fisico fondamentale, quello di spazio. Quando c’è qualcosa da “abitare” questo dovrebbe essere lo spazio, non il tempo! Max Jammer, nel suo Storia del concetto di spazio, cita una storia del Talmud palestinese. Un gruppo di pagani di religioni diverse e un ebreo erano su una barca in mare quando si scatenò una terribile tempesta. Temendo un naufragio, a turno ciascuno pregò i suoi idoli, alla fine l’ebreo invocò Dio e immediatamente il mare diventò liscio come l’olio. Giunti al porto tutti scesero per fare provviste, tranne l’ebreo che disse “Cosa può fare un povero straniero come me?”. “Tu un povero straniero? – risposero gli altri – Gli stranieri siamo noi! Noi siamo qui, ma i nostri dei sono lontani a Babilonia o a Roma. Tu invece, ovunque tu vada, il tuo Dio è con te.

Che Dio fosse ovunque nello spazio diventò l’espressione della sua ubiquità. Ossia, Egli è lo spazio di sé stesso (Zohar). Oggi concepiamo l’Universo come un’unica entità in ogni punto della quale valgono le leggi della fisica (buchi neri a parte).

A parte brevi periodi, il popolo ebraico non ha mai avuto un territorio dove ha potuto esercitare una sovranità nazionale. Caso unico nella storia, ha saputo per millenni conservare lingua, cultura, tradizioni, calendario pur disperdendosi in diversi paesi subendo persecuzioni e vessazioni d’ogni genere. Gli ebrei, pur non avendo uno spazio loro, hanno invece “abitato il tempo”. Un’immagine suggestiva che contiene tanta verità. Walter Benjamin in Tesi di filosofia della storia (1940) si riferisce al quadro di Klee Angelo Nuovo: “L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.

Nell’ebraismo, davanti abbiamo il passato, alle spalle il futuro. Il futuro è l’attesa del Messia che consentirà il raggiungimento della perfezione e della conoscenza. Tuttavia, esso ha la dimensione di un sogno, tumultuoso e incerto, anche se proteso a un progresso verso la perfezione a cui tutti sono chiamati. “Non ti spetta di completare l’opera, ma non puoi sottrarti dal tentare” (Pirkei Avot, II.21).

La visione ebraica del tempo è duale, ossia è rettilinea e circolare allo stesso tempo. Nella prefazione al suo Camminare nel tempo, Roberto della Rocca scrive “La capacità di camminare nel tempo scandisce il ritmo della vita ebraica…I giorni della settimana lavorativa, che si assommano monotonamente, convergono passo dopo passo verso lo Shabbat, tanto che non hanno neanche il diritto di fregiarsi di un proprio nome specifico, ma sono semplicemente enumerati come il primo giorno, il secondo giorno e così via”.

Lo Shabbat è molto di più del giorno del diritto al riposo perché rappresenta la necessità di tutelare la libertà e la dignità umana. La libertà dall’obbligo di ogni lavoro consente un approfondimento e uno studio della Torah. “Ogni settimana non solo abbiamo l’occasione di una nuova lettura, ma anche di una nuova esperienza – continua Roberto della Rocca nella sua prefazione al libro – poiché la storia ebraica si svolge al presente e negando la mitologia essa influisce sulla nostra vita e sul nostro ruolo nella società”.

Il calendario ebraico è scandito da festività che hanno riferimento nei cicli stagionali. Si tratta tuttavia di una ciclicità in movimento dove tutto sembra ripetersi, ma qualcosa differisce; la differenza ha il significato di un movimento progressivo verso il futuro. La ciclicità è il tempo della vita, la nostra di esseri umani. La rappresentazione lineare si riferisce invece al tempo della storia.

Tuttavia, l’ebraismo non concepisce la storia come una successione cronologica di fatti, bensì come una sovrapposizione di eventi o, meglio, come una concatenazione di generazioni attraverso la quale si trasmette la memoria. Questo ricordo trasforma il passato in un costante “presente”. D’altra parte, nella lingua ebraica non c’è il presente, ma il perfetto e l’imperfetto. Il primo è riferito a un’azione compiuta, il secondo a qualcosa che si evolve. È proprio l’incertezza e la precarietà del divenire a porci davanti alla nostra debolezza. “Ma – afferma Roberto Della Rocca – la debolezza nell’ebraismo è sempre vista come un motivo di forza e una spinta alla crescita”.

Praga è nota anche per il suo orologio astronomico montato sul municipio della Città Vecchia, ma a poco più di un centinaio di metri si trova nel vecchio quartiere ebraico un monumento non meno suggestivo. Sulla torre del Municipio Ebraico campeggiano due orologi. Quello più in alto ha sul quadrante delle ore i numeri romani. Quello in basso ha invece le lettere ebraiche (che rappresentano anche i numeri) disposte in senso contrario, per cui le lancette si muovono in senso antiorario. Il movimento all’indietro lo rende unico rispetto ad altri strumenti con quadranti ebraici, ma con movimento standard. L’orologio, che è stato fatto restaurare nel 1995 da Petr Skála e sua moglie, fu realizzato nel 1764 dall’orologiaio Sebastian Landesberger .

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