di Emilio Jona

Il 5 marzo 1922 nasce a Bologna Pier Paolo Pasolini e fervono, come è di rito, in questo centenario, le celebrazioni, talvolta esornative, talvolta utili meditazioni o ripensamenti. Certo è che si tratta di un personaggio d’eccezione, apocalittico e profetico nella cultura e nella vita degli anni 1950/1975 e ben oltre. Appassionato sperimentatore di linguaggi, fermo sostenitore del ruolo pubblico della cultura, animato da una profonda passione pedagogica e di denuncia di un potere corrotto e deviato e da una sete inesausta di scrittura critica, narrativa e poetica, Pasolini fu un essere sempre fuori luogo e fuori norma, scandalosamente contraddittorio anche, direbbe Saba, nel vedere la purezza dov’è più turpe la via, sino alla morte atroce, emblematica e tuttora oscura. Perché è certo che il minorenne Pino Pelosi, poco attendibile suo uccisore confesso, non era solo la notte di quell’omicidio, forse perpetrato da infastiditi magnaccia della malavita o ordinato da un potere corrotto e impaurito dalle denunce della sua penna accusatoria.

Ora Ha Keillah vuole celebrarlo qui nel modo più congruo per una rivista di studi ebraici con il ricordo di quello che credo sia il suo unico poemetto, di ben 11 pagine, dal titolo Israele.

Lo si trova in Poesia in forma di rosa (Garzanti 1964), e fu scritto nel 1963 in occasione di un suo viaggio in Palestina alla ricerca dei luoghi dove ambientare Il Vangelo secondo Matteo. È un paese giovanissimo quello che lui incontra, e racconta in un modo ambiguo tra amore e odio avvicinandolo e allontanandolo da sé. (Poi lo difenderà con appassionate e buone ragioni dalle accuse, di ottusa marca sovietica, del PCI, nei giorni della guerra dei sei giorni, in un celebre articolo (Compagni, perché non capite?) apparso sul numero di aprile/giugno 1967 di “Nuovi Argomenti”). È un mondo ossimorico quello di Pasolini dove convivono sentimenti contrastanti su ebrei e arabi, piuttosto che su israeliani e palestinesi, dove gli arabi sono ragazzi proletari o sottoproletari in blu-jeans “color carogna”, sfaticati in un lungomare umido e nero e lui, Pasolini, è in un “alberghetto sonoro” non dissimile da quello che si può trovare in una cittadina di un sud italico, in una cameretta con un “lavandino dove l’acqua non viene giù”.

È in questa terra ora libera, ma impastata di morte che incontra gli ebrei come “fratelli maggiori per dolore / segnati dalla grandiosità del male”, scappati quaggiù in quest’area marginale a conservare il proprio trauma e “l’aria del mondo degli anni Quaranta”. Poi gira per un kibbutz, dove c’è un’aria di riposo, un silenzio e un sole domenicale (probabilmente in realtà è shabbat) e le angosce e le felicità di ognuno “hanno una quasi monacale assolutezza”.

Ma quale diritto di riposo, quale pace può albergare, dice Pasolini, “in chi / ha in cuore l’odio dell’invasore – curioso / invasore, bambino, inoffensivo, puro”, mentre i suoi nemici sono “rei d’irragionevole / pietà per la propria terra – che l’inconscio / sospinge dai domini dell’amore a quelli / dell’odio”. Ma come sempre l’io irrefrenabile e potente di Pasolini irrompe nel poema come un grido e un invito: “Tornate, ah tornate nella vostra Europa. / Un transfert tremendo di me in voi, / mi fa sentire la vostra nostalgia / che voi non sentite, e a me dà un dolore / che sconvolge ogni rapporto con la realtà”. Poi Pasolini ritorna dolcemente nella bella realtà tra Tiberiade e il mare tra rimboschimenti di ulivi “maculati di laboriosa polvere” e piccoli arabi, cuccioli di un popolo affamato dove appare, “come un convento benedettino in Ciociaria / l’edilizia concentrazionaria (sic) di un kibutz”. Pasolini evidentemente non apprezza, lui, “insincero ricercatore dei luoghi di Dio”, il sionismo e questa “povera gioventù, là, che non ride”. Ma qui Pasolini rovescia il suo discorso nella prima persona e guarda, come fosse lui un padre ebreo, un giovane arabo che non è altro che un ragazzo del sottoproletariato romano, blu-jeans, magliuzza bianca, mani sugli stretti fianchi, cintura sotto l’ombelico, “il cavallo / dei calzoni basso come per torbido peso” e i denti d’argento. “Ha la faccia – scrive – uguale a quella di noi ebrei. […] La sua certezza esistenziale, / rinfaccia, dolce, la crudeltà della razza, / a noi ebrei, anzi israeliani, / che con l’inabilità dei miti, / stringiamo le armi in mano, vogliamo / finalmente che la violenza della ragione, / conosca l’umiltà della rabbia e dell’odio.”

Ma è chiaro cosa vede Pasolini nei magazzini, nei silos, nell’asilo, nei dormitori del kibbutz, vede l’ombra di un villaggio del Centroeuropa e quella di Dachau, “ambiguamente fusa con la pace coloniale”, vede, con uno sguardo del tutto soggettivo e irrealistico, in quei ragazzi, poveri fiori di ficodindia, di cui potrebbe essere padre, l’ansia di un’antica nevrosi, in un ingiallimento feroce come fossero già vecchie fotografie del ’44.

Poi il poemetto si conclude in una giornata a Tel Aviv tra “fraterni passanti / presi dal loro destino”, con domande non così dissimili da quelle che si pongono costantemente gli ebrei, provocatorie e come al solito prive di risposta, che lascerò ai versi di Pier Paolo Pasolini, amorevoli, inquieti, ambigui, aperti sul silenzio.

 

Una giornata a Tel Aviv: fraterni passanti
presi dal loro destino; e i loro figli,
a quel destino ancora lontani,
con la libertà che gli viene –
e la superiorità – dato che tutto
può essere per loro, nel futuro…
In questa gloria, ch’è fuori di loro,
e su di essi non c’è che la sua luce,
come quella del sole di mare che assedia
cieco la città, dove vivono, coltivano
gli atti del loro giorno: non hanno
lo spasimo della vita che se ne va,
come noi padri non padri, prefigurando
così l’indifferenza che sarà la loro vita.
Ma sono Ebrei. Perché si comportano
così, come figli di borghesi ariani,
delle grandi stupide stirpi d’occidente?
Perché questo stato d’impoeticità?
Non sono qui forse per essere uccisi?
Non lo sanno? Perché questi sguardi
di figli-padri, di fronte a cui i loro padri
non sono che misere, fetide bestie
nei cortiletti dei campi di sterminio,
nei treni merci già pieni di morti?
Da questi vermi sublimi, essi nacquero:
e adesso rinfacciano loro la morte
che è la loro vita? Li vogliono
vincitori: ma, forse, non lo sono?
Passeggiano, si radunano, belli,
per le vie della loro città,
come a Piazza del Popolo o Montmartre,
molti, imberbi, in vesti militari:
e, dal destino diverso che immaginano,
gli confluisce negli occhi arcaici una luce
che ne cancella il dolore: e sono
come tutti gli altri ragazzi del mondo.
L’ebreo per cultura ed elezione, adesso,
li guarda deluso, ma se non lo è,
quanto amore per i padri mitemente morti.

Pier Paolo Pasolini

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