di Anna Segre

La collaborazione di rav Ariel Di Porto con Ha Keillah è stata lunga e proficua e non si è limitata ai pregevolissimi articoli che ha scritto nei suoi otto anni torinesi (e ci auguriamo caldamente che i contributi suoi e di Elisabetta non mancheranno anche in futuro): spesso ci ha fornito informazioni, notizie, consigli, a volte anche in tempi brevissimi. Vorrei raccontare qui un episodio che probabilmente pochi conoscono e che a posteriori può anche apparire curioso.
Anche se sono passati sette anni ricordo benissimo quel momento, forse uno dei più sconcertanti della mia carriera di direttrice; proprio il giorno prima c’era stata la festa per i quarant’anni di Ha Keillah, ed ero ancora tutta allegra per come era andata: attraverso i numerosi partecipanti e interventi avevamo sentito più che mai il calore e l’amicizia di tanti nostri lettori e collaboratori. Torno a casa da scuola e nella buca delle lettere trovo una lettera piuttosto insolita, proveniente dal Tribunale Rabbinico di Roma e indirizzata a me e un’altra redattrice di Ha Keillah autrice di un articolo pubblicato qualche mese prima. La apro, il suo contenuto mi lascia di sasso. “Il nostro Beth Din ha ricevuto una richiesta di provvedimenti nei vostri confronti … Secondo le regole procedurali il Beth Din ascolta le parti presenti contestualmente in contraddittorio … Si fa presente che le eventuali sedute avverranno a Roma con spese di viaggio a vostro carico …
Il tono perentorio e accusatorio, il dare per scontato (o, almeno, così mi era sembrato sul momento) che le accuse nei nostri confronti fossero fondate, la pretesa che io di punto in bianco mi presentassi a Roma (immaginate quanto possa essere facile per un’insegnante di liceo classico prendere ferie a pochi giorni dalla fine dell’anno scolastico) erano piuttosto inquietanti. Ma dove siamo? Mi sono chiesta. O, meglio, quando siamo? Per un momento – deformazione professionale? mi identifico troppo con gli autori che insegno? – mi sono sentita come Galileo Galilei convocato dal Sant’Uffizio (sempre di Roma si tratta, in effetti).
Però noi ebrei non abbiamo il papa, a quanto mi risulta. Cosa ho a che fare io con Roma? Perché dovrei rendere conto a rabbini romani di quello che pubblichiamo su Ha Keillah? Sono un’ebrea torinese e ho il mio Rabbino Capo: non c’è ragione di rivolgersi ad altri. Dunque, decidiamo con l’autrice dell’articolo, prima di tutto consultiamo Rav Di Porto. Disponibile come sempre, il rav ci fornisce i chiarimenti necessari: a quanto pare chiunque può convocare chiunque davanti a qualunque bet din sulla faccia della terra. “Dunque noi per ripicca potremmo citare il querelante davanti a un bet din in Groenlandia o in Tasmania (ammesso che ce ne siano)?”  “Certamente. Ma poi anche a voi toccherebbe andare fin là.” Il rav ci spiega anche che la denuncia era stata fatta a Roma semplicemente perché a Torino non esiste un bet din (perché non a Milano, allora? Non l’ho mai saputo).
Non voglio entrare nel merito delle accuse per non alimentare polemiche vecchie di sette anni, che onestamente non ricordo neanche troppo bene. Mi limito a chiarire che l’articolo incriminato era stato scritto in vista delle elezioni comunitarie, in cui Ha Keillah aveva appoggiato ufficialmente la lista Beiachad, che comprendeva alcuni membri del Gruppo di Studi Ebraici, editore del nostro giornale. Normale, quindi, che in un contesto di campagna elettorale invitassimo a votare per i nostri candidati e a non votare per altri, ed era anche logico che un gruppo che si proponeva di costituire una nuova maggioranza consiliare avanzasse critiche alla gestione comunitaria degli ultimi quattro anni.
Comunque sia Rav Di Porto si è dichiarato disponibile a tentare una mediazione tra torinesi che evitasse a tutti la trasferta romana. Con grandissima pazienza ha riunito nel suo studio più volte noi e l’accusatore, ha ascoltato le nostre diatribe, ha studiato con attenzione tutte le carte relative alla vicenda (non solo l’articolo ma anche tutti i verbali con le delibere del precedente Consiglio) e infine ha pubblicato su Ha Keillah un suo parere, che in sostanza ha accontentato entrambi, perché criticava lo stile e il tono dell’articolo ma al contempo riconosceva che le critiche in esso contenute non erano del tutto infondate  e auspicava per il futuro una gestione comunitaria più condivisa. Grazie a questa mediazione siamo usciti da questa vicenda tutti soddisfatti, senza che le polemiche si trascinassero ulteriormente e senza la sgradevole necessità di andare a lavare i panni sporchi torinesi nelle acque del Tevere.
Racconto questa vicenda a sette anni di distanza (sperando con tutto il cuore di non riaccendere una polemica fortunatamente sopita da molto tempo) perché mi sembra un esempio significativo dello stile di Rav Di Porto: affrontare i problemi e cercare di risolverli (o risolverli davvero, come nel  nostro caso), non aspettare che prima o poi se ne occupi qualcun altro; nel caso specifico, che non lo riguardava direttamente, avrebbe potuto davvero lavarsene le mani e lasciare che andassimo a sbranarci a Roma sotto gli occhi incuriositi dell’intero ebraismo italiano. Ed è un altro suo grande merito questa capacità di mediare tra persone e gruppi diversi, senza lasciarsi trascinare troppo dall’una o dall’altra tifoseria. Non per niente il rammarico per la sua partenza è stato comune a molte persone e gruppi diversi.
Rav Di Porto lascia una Comunità molto meno litigiosa di quanto lo fosse otto anni fa. Confidiamo   che questo clima che si è creato permanga nei prossimi anni e che il nuovo rabbino capo di Torino rav Ariel Finzi, a cui va il nostro caloroso benvenuto, proseguirà nel dialogo con tutte le anime della comunità.

 

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