Intervista di Bruna Laudi
La bellezza della vita è la possibilità di fare continue scoperte, di intrecciare coincidenze, di ritrovare persone e scoprire relazioni. Nel mese di maggio ho avuto occasione di visitare a Casale Monferrato la mostra di fotografie di Lisetta Carmi, ospitata nei locali della Comunità ebraica: un reportage su Israele e Palestina con fotografie scattate nel 1962 e nel 1967, che coincidevano con le impressioni e i ricordi del mio primo viaggio in quei luoghi. (A lato la presentazione della mostra, curata da Giovanni Battista Martini, che gentilmente ha concesso la selezione di foto qui pubblicate).
Così ho scoperto Lisetta Carmi, nata e vissuta a Genova per molti anni: anche io ho vissuto a Genova per 20 anni, senza sapere della sua esistenza. Ancora una volta mi sono resa conto che non c’è un mondo ebraico monolitico, come spesso ci raffigurano dall’esterno, ma ci sono mondi paralleli, diversi per cultura o per status sociale, che difficilmente comunicano tra di loro.
Poi si è aperto un altro squarcio: ai primi di luglio Lisetta è morta, all’età di 98 anni, e volevo intervistare qualcuno che l’avesse conosciuta e che potesse aiutarmi a sapere di più su di lei e sulla sua vita. Mi è stato consigliato il regista Daniele Segre, che avevo conosciuto tanti anni fa quando entrambi insegnammo alla scuola ebraica: gli ho telefonato ed è stato subito disponibile, felice di raccontare una donna che ha stimato moltissimo. Dalla nostra conversazione è nato il desiderio di intervistare Daniele sulle sue opere cinematografiche, in uno dei prossimi numeri del giornale.
Daniele, quando hai conosciuto Lisetta?
Nel gennaio del 2009 sono andato a Ravenna per vedere una sua mostra fotografica, nata dall’incontro, durante una festa di Capodanno del 1965, con il gruppo di travestiti che abitavano nell’antico ghetto ebraico: non conoscevo personalmente Lisetta ma conoscevo il suo lavoro, in particolare quello oggetto della mostra, ed ero incuriosito perché, venti anni dopo di lei, inconsapevolmente, ho girato un film con protagonisti i travestiti: “Vite di ballatoio”. In occasione della mostra ho potuto finalmente conoscerla e c’è stato un vero e proprio innamoramento reciproco. È stata un’esperienza importante per me, perché c’erano tante coincidenze nelle nostre vite: il fatto che eravamo tutti e due ebrei, poi il fatto che lei si fosse occupata di travestiti e che io avessi girato il film sullo stesso tema nel 1984, senza sapere nulla del suo lavoro, un insieme di elementi con che ci riguardavano e ci accomunavano e, infine, la fortuna di esserci incontrati e di esserci riconosciuti. È stata un’esperienza splendida.
Poi lei ha ascoltato una mia intervista a Radio 3 e mi ha scritto una lettera. Da quel momento non ci siamo lasciati più.
Avevo in mente un progetto, girare un documentario su di lei: era l’autunno del 2009, sono partito da Torino per Cisternino, dove lei ha scelto di vivere, e in quattro giorni abbiamo girato il film “Lisetta Carmi, un’anima in cammino”! Conoscevo il suo passato di concertista e l’ho letteralmente pregata, dicendo che avrei avuto bisogno che lei riprendesse a suonare il pianoforte. Inizialmente non era tanto d’accordo ma poi ha ceduto e ha eseguito, per il film, la “Sonata per clavicembalo ben temperato” di Bach: è stata splendida e straordinaria. Nel settembre 2010 Il film è stato invitato alla “Giornata degli autori” al festival di Venezia e con Lisetta siamo andati lì ed è stato un vero successo personale per lei e anche ha dato luce al suo lavoro. Da allora poi si sono inanellate tutta una serie di mostre che lei ha fatto fino ai suoi ultimi giorni, anche se ha smesso di fare la fotografa negli anni ‘80.
In che modo vi accomunava essere entrambi ebrei?
Sia io che Lisetta possiamo definirci due ebrei indipendenti e non bigotti che non negano la loro origine, anzi, ne sono orgogliosi.
Quali sono le origini di Lisetta Carmi?
Lisetta apparteneva a una famiglia agiata, molto rigorosa ma libera e che le ha permesso poi come donna di vivere delle esperienze che, all’epoca, erano difficili da vivere. Suo fratello Eugenio fu un grande artista contemporaneo, esponente dell’astrattismo.
Nella sua prima vita fu concertista, si dice che il suo amore per la musica fosse tale che quando dovette scappare in Svizzera per le persecuzioni razziali si fece portare il pianoforte. In seguito, come diceva lei, ha iniziato a imparare a scrivere con la macchina fotografica, documentando le lotte degli operai e dei portuali negli anni ’60 a Genova. Determinante fu anche l’esperienza che ha vissuto con Leo Levi accompagnandolo in Puglia, dove doveva registrare i canti della tradizione ebraica composti nella comunità di San Nicandro. Incoraggiata da lui fu conquistata dal linguaggio fotografico e ha iniziato un nuovo percorso espressivo: i risultati dimostrano la sua sensibilità e le sue capacità straordinarie. Sapeva documentare e raccontare in particolare il mondo degli ultimi e per una donna fu una scelta molto coraggiosa in quel periodo: pensa che nessuna libreria voleva vendere il libro Travestiti Essedi Editrice Roma, da lei pubblicato nel 1972, erano tutti scandalizzati dall’audacia di raccontare un mondo che doveva essere nascosto ai benpensanti.
La scelta di scattare quelle fotografie presuppone una conoscenza profonda dei soggetti. Chi osserva una fotografia spesso non indaga sul significato della relazione che c’è stata a monte dello scatto.
Certamente si è creato un rapporto che le ha permesso di essere accettata da quel mondo nel quale lei si è inserita e, grazie a questo rapporto, tutto poi è stato documentato fotograficamente. Lei ha frequentato, è stata accolta e accettata proprio per il rispetto che ha sempre portato per le persone.
Nel mio caso, senza prima creare un clima di fiducia reciproca, non avrei mai potuto girare “Vite di ballatoio” che ho preparato in due anni. Ho girato a Torino nel centro storico in un palazzo di ballatoio e il film ha vinto il “Festival del cinema indipendente italiano” nell’84, poi è stato presentato al Festival di Berlino È un film che è stato veramente molto importante per me, come altri, ma questo in particolare, proprio per le storie che si narrano.
Ma raccontami ancora qualcosa che ti venga in mente di Lisetta.
Una persona veramente splendida, con una capacità straordinaria di produrre energia positiva: è stato l’elemento determinante quando l’ho sentita intervenire a Ravenna In occasione della mostra fotografica. Sono stato folgorato, è stato quello il motivo per cui ho deciso che valeva e meritava la pena di fare un film su di lei, perché ne ero uscito rigenerato molto positivamente, trasmetteva veramente un’energia positiva importante. Almeno per quello che mi riguarda sono cose che sono necessarie per credere in quello che fai; ma devi credere anche in te stesso rispetto alla capacità di ricevere questo tipo di energie. Lei aveva questa grande capacità, era molto entusiasta della sua vita, anche se io personalmente avevo espresso rammarico per il fatto che lei avesse smesso di fare la fotografa nel 1984: l’ho sempre considerata un’importante fotografa nel panorama nazionale e internazionale. Lo testimoniano i riscontri che ha avuto in vita ma che sta ancora ricevendo e che avrà sempre: è stata una pioniera importante della fotografia, in particolare come testimone del lavoro delle donne in questo settore. Ha svolto un lavoro di emancipazione e di libertà: lei era una donna libera.
Le fotografie che ho visto a Casale su Israele erano tutte di anni lontani, immagino che lei fosse molto critica rispetto alle politiche annessioniste di Israele.
Assolutamente sì, era un suo modo di sentire. Non so se lo avesse espresso pubblicamente, nel film non ne parla, io comunque lo sapevo ma non è stato un argomento trattato nei nostri incontri per il film.
Quindi lei poi non ha più mantenuto rapporti con l’ambiente ebraico o almeno con qualche settore dell’ambiente ebraico?
Non lo so, ma non credo: penso che fin dall’inizio non ci sia stato un rapporto stretto con l’ambiente ebraico, diciamo che lei ha sempre riconosciuto e dichiarato, come dice nel film, la sua origine ebraica. Forse ha mantenuto dei contatti individuali con intellettuali ebrei.
Parlami dei suoi ultimi anni, dopo che ha abbandonato la fotografia.
Fino all’ultimo ci siamo sentiti telefonicamente, per salutarci, per sapere come andava, l’ultima volta forse un mese e mezzo fa: ma quello che posso dire è che è stata una donna molto importante che ha lasciato il segno. Ha fatto poi le sue scelte personali: nel 1976, durante un viaggio in India, ha incontrato il maestro Babaji, che la spinse a cambiare, ancora una volta, vita. Nel 1979 vendette tutte le sue proprietà e fondò a Cisternino, Brindisi, un centro spirituale, l’ashram Bhole Baba: da allora, si è occupata di diffondere gli insegnamenti del suo maestro. Purtroppo, decise anche di abbandonare la fotografia.
Quindi non è stata sola nella sua vecchiaia?
Ha sempre avuto persone vicine che la stimavano e le volevano bene. Ultimamente ha avuto un incidente domestico: abitava in una casa del centro storico di Cisternino e per salire nel suo appartamento c’era una scala con dei gradoni incredibili che lei faceva come un ragazzo di 18 anni, una cosa ammirevole. Poi è caduta in casa e, su consiglio di tutti, si è trasferita in una casa meno impegnativa ma sempre con qualcuno che le stava accanto.
Lisetta Carmi nasce a Genova il 15 febbraio 1924 da una famiglia ebraica. Durante il periodo delle leggi razziali è costretta a lasciare gli studi e a fuggire in Svizzera. Dopo la guerra si diploma in pianoforte e diventa una brava concertista.
Negli anni Sessanta viene a contatto con il mondo delle fabbriche e del porto, comincia a documentare con la fotografia le condizioni dei lavoratori e si avvicina all’entourage artistico di Genova. Abbandona l’attività di pianista per la fotografia, che diventa uno strumento di impegno politico e un mezzo per compiere un profondo percorso di ricerca esistenziale. Lavorerà come fotografa solo fino al 1984, producendo un vastissimo archivio.
Tra i suoi reportage più importanti: L’Italsider del 1962, Genova Porto del 1964, Erotismo e autoritarismo a Staglieno del 1966, sul cimitero monumentale del quartiere genovese.
Sono celebri i ritratti fotografici di molti artisti e intellettuali della sua epoca.
Tra gli anni ‘60 e ‘70 fece reportage fotografici dall’Afghanistan, Pakistan, Israele, Palestina e America Latina
I suoi viaggi in Oriente culminarono nell’incontro con il suo maestro spirituale Babaji: in seguito lasciò la fotografia aprì un centro di meditazione a Cisternino (BR).
È morta il 5 luglio 2022, a 98 anni.
Daniele Segre, regista (Alessandria 1952), è autore di “cinema della realtà”, film di finzione e spettacoli teatrali. Esordisce come fotografo a Torino negli anni Settanta; i suoi primi film si focalizzano su problemi delle realtà giovanili disagiate. Seguono film documentari su problemi sociali di grande rilevanza, come le morti sul lavoro o la condizione carceraria. Le sue opere sono quasi sempre trasmesse dalle reti pubbliche e presentate alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia e in diversi festival nazionali e internazionali, ricevendo vari prestigiosi riconoscimenti.
Negli anni ’80 fonda due società di produzione. È stato docente di regia e direttore didattico in numerose sedi di scuole e facoltà di cinematografia.
Tra i numerosi film realizzati segnaliamo: il ritratto della fotografa genovese “Lisetta Carmi, un’anima in cammino”, 2010 e il film testimonianza “76847 Giuliana Tedeschi”, realizzato nel 2013. Nel novembre 2012, al Quirinale, Il Presidente Giorgio Napolitano gli consegna la Medaglia Presidente della Repubblica (Premio Documentario per il Cinema) per il film “È viva la Torre di Pisa”. Sempre nel novembre 2012 riceve il premio alla carriera “Maria Adriana Prolo”
Nel 2014 cura il laboratorio per il Centro Sperimentale di Cinematografia che realizza “Sbarre” sulla condizione delle carcerate e dei carcerati e della polizia penitenziaria del carcere di Sollicciano (FI).
Da allora ha continuato il suo impegno nella realizzazione di diversi film reportage di carattere storico.
(per la biografia completa consultare il sito www.danielesegre.it).
Presentazione della mostra: Lisetta Carmi, Viaggio in Israele e Palestina, fotografie 1962-1967
Lisetta Carmi osserva con profondo interesse il nuovo Stato d’Israele.
Vi soggiornerà a più riprese, dapprima come pianista e poi come fotografa.
Nel 1960 intraprende una lunga tournée pianistica nell’ambito degli scambi culturali con l’Italia, affiancando al repertorio classico quello contemporaneo di Cortese, Dallapiccola, Casella, Aprea.
Nello stesso anno, una forte pulsione verso le problematiche sociali la spinge ad abbandonare l’attività concertistica per dedicarsi alla fotografia. Quando due anni più tardi torna in Israele e Palestina, il suo obiettivo si posa sulle contraddizioni del Paese, sospeso tra le innovative esperienze dei kibbutz e la tradizione degli ebrei ortodossi, nella difficile convivenza di immigrati provenienti da paesi e culture lontane.
Di fronte agli eventi della vita e della storia Lisetta si è sempre schierata dalla parte degli emarginati, di chi soffre e di chi lotta contro le ingiustizie: il conflitto con i palestinesi e la conseguente Guerra dei Sei giorni la spinge a ritornare in Israele nel 1967 ad appena un mese dalla conclusione dell’evento bellico.
Questo sarà l’ultimo viaggio della fotografa nella “Terra dei due Popoli”. La sua coscienza ne emerge fortemente turbata, lasciando il suo rapporto con Israele irrisolto.
Giovanni Battista Martini
Le fotografie di Lisetta Carmi si possono ammirare a Torino, alle Gallerie d’Italia, fino al 22 gennaio 2023
Maggiori informazioni:
https://www.gallerieditalia.com/it/torino/mostre-e-iniziative/mostre/2022/09/22/lisetta-carmi–suonare-forte/