di Davide Assael

Domenica 10 settembre si è celebrata la Giornata Europea della Cultura Ebraica, quest’anno dedicata al tema della bellezza. Con un soggetto simile, l’epicentro delle celebrazioni non poteva che essere Firenze, città rinascimentale per eccellenza che conta milioni di visitatori l’anno. Non stupisce, dunque, che prima del dibattito intellettuale, a cui anch’io sono stato gentilmente invitato, siano intervenute numerose figure istituzionali per i saluti di rito. Fra queste, l’intervento più corposo è stato tenuto dal ministro della Cultura Sangiuliano, che, oltre al consueto elenco di quanto già fatto per le comunità ebraiche dal suo governo, ha riproposto un argomento già sentito in altre occasioni da esponenti della destra italiana. In primis dalla stessa premier Giorgia Meloni al Museo Ebraico di Roma in occasione della festività di Hanukkà lo scorso anno. In sostanza, Sangiuliano ha sottolineato la sua vicinanza al mondo ebraico, in quanto legato a radici e tradizioni solide, senza le quali, questo il mantra sentito e risentito in questi anni anche da altri esponenti politici europei appartenenti alla stessa area, non si sarebbe nemmeno capaci di relazionarsi agli altri. Come detto, l’impianto retorico non è nuovo, ma segna un cambio di passo rispetto a quanto sentito nell’Europa post 11 settembre, quando ha cominciato a delinearsi un’alleanza fra destra, anche estrema, e parte del mondo ebraico in funzione anti-islamica, immedesimandosi con la lotta di Israele per la sua sopravvivenza ed importando in Europa una logica mediorientale. Adesso, l’identità ebraica viene assunta addirittura come modello di uno spirito conservatore, che si oppone alle tendenze «liquide» della modernità. Ora, il rapporto ebraico con le origini non è di facile soluzione, ma, se è vero che risalta agli occhi di tutti la pervicacia con cui la diaspora è rimasta, nei secoli, fedele a tradizioni antichissime rimaste sostanzialmente invariate, non può passare inosservato che l’identità ebraica si forma a partire da movimenti di distacco, a cominciare da quel Lech Lechà (Vai via) di Genesi 12, 1, con cui il Signore si rivolge al primo patriarca Abramo, intimandolo di lasciare la sua terra, la sua famiglia, la casa di suo padre. Passaggio unanimemente riconosciuto come momento fondativo dell’identità biblica. Lo stesso termine ‘ivrì, ebreo, con cui Abramo viene per primo definito, deriva dal verbo laavor, che significa attraversare, oltrepassare. L’ebreo è colui che attraversa il limite del Paese natio per dirigersi verso il luogo che gli verrà mostrato e che i chachamim descrivono come società alternativa a Ur dei Caldei, la città dove i bambini venivano sacrificati al sovrano-Dio Nimrod. Destino a cui lo stesso Abramo, secondo il midrash, sarebbe miracolosamente sfuggito. L’identità ebraica assume, poi, forma definitiva con la yetziat Mitzraim, l’uscita dall’Egitto, che maestri del calibro di Chayenu BeChaye’, il Chizqùni, o l’Or HaChaim hanno considerato il centro stesso dell’ebraismo. La narrazione biblica, ossia il luogo di formazione dell’identità ebraica, sembra, dunque, proporsi come un progetto di emancipazione da quell’origine tutt’altro che pura, come vorrebbe certa retorica di destra, ma presentata come luogo delle asimmetrie sociali, economiche, anche antropologiche. Un’origine che assomiglia molto allo stato di natura descritto dai filosofi giusnaturalisti, dove il più forte sottometteva il più debole. Respingiamo, dunque, questa falsa e assai superficiale rappresentazione dell’ebraismo come esempio di «rigida tradizione» e vediamo con sospetto questo tentativo assai peloso di avvicinamento per fare argine comune contro i barbari alle porte. Non è solo il passato ad educarci alla diffidenza; è del Rosh HaShanà appena passato l’accusa di Donald Trump agli ebrei liberal americani di essere traditori, e dello Stato in cui vivono e di Israele, per non averlo votato alle scorse elezioni. Insomma, gli ebrei vanno bene per fare un po’ di brandwashing, come si dice oggi, ma si scaricano presto quando bisogna scegliere fra loro e i voti. Monito da tenere presente quando si definisce all’orizzonte la figura dell’argentino Javier Milei, fuori scala persino per i parametri trumpiani, che dice di studiare Torah ogni settimana. Non sappiamo per lui, ma per noi l’identità ebraica non si costruisce in negativo. Non prende forma in virtù dei suoi nemici, come voleva fosse per ogni comunità il realismo di Machiavelli o Hobbes. Ha in sé le ragioni del proprio sviluppo, guidata da un sogno utopico di emancipazione sociale che ha ispirato tutti i grandi movimenti progressisti della storia. «Moses, Moses» cantavano gli schiavi e le schiave nei campi di cotone, assumendo colui che scelse di essere pastore invece che faraone come proprio liberatore. A volte, e tutto ciò ha un sapore talmudico, uno schiavo capisce meglio di un ministro.

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