Grecia, popoli ed ebrei

di Alessandro Treves

Lasciate le pendici del Pindo, poetiche forse ma scarsamente popolate, dove abbiamo avuto se non altro il piacere di sentire nostra figlia parlar greco in qualcuno degli sparuti villaggi semi-abbandonati, imbocchiamo la Statale 20 verso Nord-Est. Qui davvero non c’è nessuno. La strada ha una sola carreggiata, ma è ampia, piana e senza grandi curve. Solo che non si vede anima viva. Devo far benzina e di stazioni di servizio nemmeno l’ombra; neanche di case, o di esseri umani, pastori, qualcuno. A dire il vero una presenza c’è, sulla sinistra, ma immobile e inanimata. La montagna. Apparentemente inaccessibile. Mi ricorda, per contrasto, il muro di separazione che ci fiancheggia invece sulla destra quando prendiamo l’autostrada 6 verso il Nord d’Israele. Forse un indizio subliminale è il termine greco per la strada statale, Ethnikì Odos. Sono strade che marcano il confine con altre etnìe. Però, oltre il muro che costeggia la 6, l’altra etnìa sembra in prigione, una prigione affollata e straripante, a Qalqilya come a Tulkarm; mentre qui, lungo la 20, dell’altra etnìa non si vede traccia. Non minacciano di straripare in Grecia, gli albanesi? E la Statale 20 non serve a meglio perlustrare il confine?

In realtà gli albanesi sono venuti a frotte in Grecia, dopo il crollo del regime comunista. Si stima siano ben oltre mezzo milione, il gruppo più numeroso di migranti fermatisi sul suolo ellenico. Ma non certo in Epiro. Poi ci sono gli Arvaniti, arrivati nel Medio Evo in Attica, Beozia, soprattutto nel Peloponneso, dove in certe zone erano il gruppo etnico dominante. Provenivano dall’odierna Albania ma anche dallo stesso Epiro, prima che venissero islamizzati. Questo, la lunga permanenza, e gli sforzi di assimilazione del governo greco nel ventesimo secolo, hanno fatto sì che l’albanese nella sua versione arvanita stia gradualmente scomparendo, linguisticamente e forse anche culturalmente, col prevalere dell’identità greca.

C’è però un terzo gruppo, o meglio in gran parte si può dire c’era: gli albanesi dell’Epiro, e in particolare della Ciamuria, la regione costiera di Igoumenitza, fra Ioannina e Corfù, dove erano fino ad un secolo fa la maggioranza. Non migranti, bensì autoctoni, almeno da quando esiste documentazione storica. In gran parte islamizzati. Fra di loro, presente fino a tutto l’Ottocento era una classe benestante, proprietari terrieri, come anche amministratori e capi militari al servizio dell’Impero Ottomano. E figure di leader in bilico fra la lealtà al sultano e la ribellione intermittente, come il mitico Alì Pascià, il Leone di Ioannina, che era riuscito al tempo di Napoleone a ritagliarsi un esteso dominio semi-indipendente, finché adiratosi il sultano non lo fece decapitare, quasi ottantenne, insieme ai tre figli.

Col passaggio della regione alla Grecia dopo le Guerre Balcaniche, e ancor più dopo lo scambio forzoso di popolazioni fra Grecia e Turchia nel 1923, cent’anni fa, agli albanesi dell’Epiro fu applicato un regime durissimo: agli albanesi cristiani era vietato usare la propria lingua, e dovevano assimilarsi ai greci; a quelli musulmani, la maggioranza, vennero confiscati molti beni, e venivano spinti ad andarsene. L’Italia fascista, che non si comportava in modo granché diverso con gli slavi del confine orientale, intraprese cinicamente una campagna di propaganda pro-albanesi della Ciamuria, incoraggiando la formazione di gruppi fascisti locali e preparando così l’invasione della Grecia dall’Albania, nel frattempo ridotta a protettorato. Un effetto di entrambe queste politiche fu che, una volta intervenuta la Germania dopo l’imbarazzante fallimento dell’invasione italiana, una parte della popolazione albanese collaborò attivamente con le forze dell’Asse. Alla liberazione della Grecia dal nazi-fascismo, gli albanesi musulmani vennero espulsi (inclusi duemila condannati a morte come collaborazionisti) e nel 1947 venne loro revocata la cittadinanza. Nel 1986 è stato scritto che ne rimanevano in Epiro solo 44, residuali, oltre a circa quarantamila albanesi cristiani ormai grecizzati. Le centinaia di migliaia di discendenti della diaspora, soprattutto in Albania, hanno ripetutamente chiesto la restituzione della cittadinanza greca, sostenendo che i collaborazionisti erano una minoranza, e che per loro la cittadinanza è più importante che non le proprietà confiscate. Proprietà che, in uno “scambio” asimmetrico forzato che ha anticipato quello del Vicino Oriente, erano state spesso distribuite a profughi greci arrivati dalla Turchia. Per la Grecia la questione è chiusa, una vicenda della storia, pari e patta. Del “diritto al ritorno” degli albanesi in Ciumeria non si parla in nessun contesto internazionale, nonostante la presenza in Grecia di un numero adesso molto maggiore di immigrati albanesi.

Non si tratta solo di similitudini e differenze con lo scambio forzoso tra profughi ebrei e palestinesi, ci sono anche pezzi di storia ebraica che stanno dissolvendosi con lo scomparire di quella che era stata una singolarità multiculturale. Oltre ad albanesi e greci, c’era in quell’angolo dei Balcani chi parlava turco, chi slavo (fra cui i Pomacchi musulmani), chi una variante del rumeno (gli Aromuni), chi dialetti veneti e chi ladino: ebrei, ebrei sabbatiani e sabbatiani islamizzati, i Dunmeh o Maaminim, tre gruppi che per un certo periodo mantennero fra loro legami familiari e di affari, e una lingua comune. Shabbetai Tzvi è sepolto a Dulcigno, il comune più meridionale del Montenegro, a maggioranza albanese, e alla sua tomba si recano tuttora estimatori di eterogenea provenienza.

La comunità di Ioannina, che all’inizio del ventesimo secolo contava ancora cinquemila ebrei, è rimasta di rito Romaiota, quello un tempo prevalente nell’Impero Romano d’Oriente, poi soppiantato quasi ovunque dall’arrivo dei sefarditi cacciati dalla penisola iberica. Nel 1923, appunto cent’anni fa, venne approvata una legge che prevedeva l’espulsione di chi non aveva partecipato attivamente alla lotta contro i turchi, una versione greca della legge sullo Stato-Nazione, vista da molti come intesa a sbarazzarsi essenzialmente degli ebrei, dato che i musulmani erano espulsi a priori. Molti se ne andarono. Ciononostante, fra i rimasti ce ne furono diversi che nel 1940 combatterono nell’esercito greco contro gli invasori, cinque di loro perdendo la vita. All’arrivo dei nazisti, fra cui Kurt Waldheim, che già avevano liquidato gli ebrei di Salonicco, ci fu chi, fra i duemila rimasti in città pensò che come parlanti greco e non ladino non sarebbero stati deportati. Altri si unirono ai partigiani. Venerdì 24 Marzo 1944 i tedeschi, con l’aiuto della polizia greca, circondarono il quartiere ebraico, marchiando con un crocifisso le case dei cristiani da evitare, una sorta di Pesach al contrario. Dopo la guerra, tornarono a Ioannina 164 ebrei, ma in maggioranza se ne andarono nel giro di pochi anni. Ne rimangono una trentina. Incluso, fin quando è mancato il 17 febbraio di quest’anno, il sindaco di Ioannina, Moses Elisaf, uno stimato medico e scienziato che si era presentato alle elezioni nel 2019 come indipendente, ed era stato eletto, il primo ebreo a guidare una città della Grecia. Quest’estate gli avevo scritto ed aveva risposto che potevamo visitare il tempio, il Kahal Kadosh Yashan, occasionalmente ancora in funzione. Nella struggente dolcezza di Ioannina, sul lago, il tempio era bello, ampio, sobrio, invaso di luce con le sue colonne bianche e le sue ampie finestre, i nomi dei deportati su lapidi bianche alle pareti; e vuoto. Come vuota avremmo trovato la 20, di ritorno verso Salonicco – forse se lo dovrebbe aspettare, chi imbocca la Strada Etnica.

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