di Francesco Moisés Bassano

Tra febbraio e marzo di quest’anno, pochi giorni dopo che la Russia aveva iniziato l’aggressione militare sul suolo ucraino, centinaia di migliaia di ucraini in fuga dai bombardamenti hanno raggiunto l’Unione Europea. Tra questi richiedenti asilo v’era già un buon numero di ebrei. I territori centro-orientali del paese sono stati i primi ad essere colpiti dall’esercito russo, e qui, nelle città di Dnipro, Kiev e Kharkiv, risiede dal secondo dopoguerra anche la maggior parte della popolazione ebraico-ucraina. Una popolazione che non è perfettamente quantificabile e varia da un numero di 70.000 persone a 400.000 anche dipendentemente dai criteri con cui si potrebbe definire “chi è ebreo”.

La maggioranza dei profughi ebrei in fuga dall’Ucraina è stata accolta fin dalle prime settimane di marzo in Israele e in misura minore in Germania, paese nel quale, insiee all’Austria e gli Stati Uniti, vive già dalla caduta del Muro di Berlino un numero consistente di ebrei provenienti dall’ex Unione Sovietica. Quanti ebrei abbiano lasciato l’Ucraina dall’inizio del conflitto in modo definitivo o temporaneo non è stimabile con facilità: a giugno di quest’anno il JPost parlava di oltre 11.000 ebrei i quali avrebbero fatto l’aliyah in Israele e di altri 5.000 che sarebbero arrivati sino a quel momento in Germania.

A questi numeri si dovrebbero poi aggiungere anche coloro che, per paura della situazione economica o per protesta nei confronti della guerra scoppiata in Ucraina, hanno lasciato la Federazione Russa o sarebbero in procinto di farlo. A mettere a rischio la presenza degli ebrei nel paese sono state soprattutto la “mobilitazione parziale” annunciata a settembre da Vladimir Putin, col conseguente richiamo alle armi di oltre 300.000 uomini e, in generale, l’opposizione nei confronti dell’occupazione ucraina da parte di numerosi ebrei russi, anche tra coloro tradizionalmente vicini al potere putiniano. Si ricorderà per esempio il caso celebre del rabbino capo di Mosca Pinchas Goldschmidt, della politica e sfidante di Vladimir Putin Ksenia Sobcak, o dell’economista di era eltsiniana Anatolij Čubajs: i primi due sarebbero infatti fuggiti in Israele. Secondo l’ONG Ofek Israeli, 32.924 cittadini russi avrebbero fatto nel 2022 l’aliyah in Israele grazie alla Legge del Ritorno, un numero che, se confermato, sarebbe paradossalmente anche maggiore rispetto alle aliyot dall’Ucraina.

A differenza di coloro che sono fuggiti dalla Russia, probabilmente non è scontato che gli ebrei in fuga dall’Ucraina non facciano più ritorno nel paese. Come del resto è accaduto per i loro concittadini non-ebrei: nelle regioni che sono state riconquistate negli ultimi mesi dall’esercito ucraino ci sono già stati dei ritorni e vi è, da parte di molti ucraini senza distinzione di credo o origine, un desiderio di ricostruire e far rinascere il paese semidistrutto. Rispetto a altri esodi ebraici, la fuga degli ebrei dall’Ucraina non è stata scatenata da moti di antisemitismo ma è avvenuta a seguito di un’aggressione che ha subito l’intera popolazione di uno stato guidato tra l’altro da un presidente ebreo, divenuto uno tra i principali protagonisti di questi mesi travagliati.

A marzo di quest’anno l’ex ministra dell’interno israeliana, Ayelet Shaked, aveva affermato che la guerra in Ucraina avrebbe avuto un impatto diretto anche sullo Stato di Israele, e che il paese si sarebbe “apprestato ad assorbire, secondo le stime, circa 100.000 ebrei aventi diritto alla Legge del Ritorno insieme ai loro familiari in fuga dalle zone di battaglia”.

Come è ben risaputo la Legge del Ritorno, approvata dalla Knesset nel 1950, garantisce il diritto all’emigrazione in Israele a qualunque ebreo o convertito secondo la definizione halakica tradizionale e, in seguito a una modifica del 1970, anche ai figli e nipoti di ebrei insieme ai relativi coniugi.

Dopo le elezioni di novembre e la vittoria di Benjamin Netanyahu, i tre partiti religiosi Shas, YaHadut HaTorah e Sionismo religioso, i quali dovrebbero entrare nella coalizione del prossimo governo, hanno posto proprio come premessa al loro ingresso una modifica della Legge del Ritorno. Nello specifico, la modifica dovrebbe riguardare la “clausola del nipote”, quella appunto che permetterebbe la cittadinanza a chi ha almeno un nonno ebreo, così come in discussione è anche l’accettazione come ebrei, e quindi candidati alla cittadinanza israeliana, per coloro che si sono convertiti con i movimenti riformati e conservatori. Un reale cambiamento sulla Legge del Ritorno è ritenuto da molti opinionisti poco probabile ma il tema è comunque un oggetto di dibattito ricorrente che da tempo tormenta in Israele sia gli ambienti nazionalisti-religiosi che quelli propriamente haredi. Secondo le statistiche del Knesset Research and Information Center, il 36% degli ‘olim (ebrei che fanno ritorno in Israele) arrivati nel paese dal 1990 al 2020 non sono considerati ebrei secondo halakha, percentuale che sale al 72% per gli ‘olim provenienti dall’ex Unione Sovietica. Circa mezzo milione di cittadini israeliani al giorno d’oggi sono ufficialmente considerati di “nessuna religione” (rispetto ai 100.000 del 1996), per quanto la maggioranza di essi si consideri come ebrea, partecipi alla vita politica e civile del paese e venga chiamata a servire nell’esercito. Se ormai in Israele v’è appunto una consistente generazione di ‘olim “non halakici”, col proseguire del conflitto in Europa Orientale un’eventuale riforma della Legge del Ritorno andrebbe a ricadere anche sugli ebrei attualmente in fuga dalla Russia e dall’Ucraina. Gli stessi di cui parlava l’ex ministra Ayelet Shaked a marzo di quest’anno.

Ma cambiamenti sulla Legge del Ritorno avrebbero importanti conseguenze non solo sulla realtà israeliana, potrebbero altresì compromettere i rapporti con l’Agenzia Ebraica e soprattutto con l’ebraismo diasporico, quello statunitense in primis. Considerato che l’ebraismo ortodosso rappresenta solo il 22% degli ebrei statunitensi (Harris Poll 2003) e i matrimoni misti riguardano almeno la metà degli ebrei del paese.

Al palesarsi del rischio le polemiche non si sono fatte attendere: i più, come anche i politici Avigdor Lieberman di Israel Beitenu, il laburista Gilad Kariv e l’ex ministro della diaspora Nachman Shai, hanno parlato di “certificato di divorzio” con la diaspora ebraica e di pericoloso attacco ai “fondamenti del sionismo”. Probabilmente questo è un sentimento condiviso anche dalla maggior parte degli ebrei israeliani, considerato che un sondaggio del 2020 del Jewish People Policy Institute ha rilevato che il 49% di essi ritiene che la legge del ritorno, con la cosiddetta “clausola del nipote”, dovrebbe essere lasciata così com’è. Il Times of Israel scrive che vi è nel paese una convinzione diffusa, per quanto parzialmente errata, che ritiene che l’emendamento del 1970, con la sua “clausola del nipote”, sia stato ispirato, in una sorta di rivalsa storica, alle leggi di Norimberga in merito alla purezza razziale, che indicavano come ebrei, e pertanto da eliminare, tutti coloro che avessero almeno un nonno ebreo,

Nel dibattito pubblico israeliano per molti la soluzione al limbo degli “ebrei senza religione” è quella di accelerare e rendere più semplici le conversioni ortodosse per i “discendenti di ebrei”. Sempre secondo le statistiche del governo israeliano, tra il 2008 e il 2020 solo il 16% degli ‘olim non halakicamente ebrei si sarebbe convertita all’ebraismo attraverso uno dei programmi ufficiali di ghiur del governo israeliano o attraverso il programma di conversione dell’esercito israeliano.

In conclusione, le proposte di modifica sulla Legge del Ritorno, per quanto destinate probabilmente a fallire, lasciano trasparire una scarsa conoscenza e sensibilità da parte delle componenti haredi e dati leumi (correnti dell’ebraismo ortodosso) della realtà e della storia della diaspora ebraica, dove all’interno di essa quasi tutti gli ebrei hanno ormai almeno un parente che non è ebreo, o che è comunque al di fuori dell’ebraismo tradizionale. In particolar modo la forte assimilazione che si è venuta a creare nel tempo tra gli ebrei ex sovietici è conseguenza di decenni di ateismo di stato, di tabù identitari e repressioni di natura antisemita, le quali avevano raggiunto il suo acme nel periodo staliniano. Fenomeni che hanno dato vita a un ebraismo secolare, liquido e intermittente dove l’usuale metro matrilineare per definire “chi è ebreo” è difficilmente applicabile.

Come per altri frangenti, i settori più radicali del nazionalismo-religioso, che negli ultimi anni hanno raggiunto un consenso e un potere politico sempre maggiore, rischiano di frastagliare e creare uno scisma sempre più profondo in seno alla società israeliana. Così come altresì è a rischio l’idea originaria di Israele come “casa e rifugio di tutti gli ebrei del mondo” senza distinzione di corrente, storia familiare o osservanza religiosa.

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