di Anna Segre

Dopo il 7 ottobre si è aperto, per lo meno in Italia, un vero e proprio baratro.

Gli ebrei italiani hanno sentito prima di tutto la necessità di stringersi a Israele nel momento del bisogno, hanno visto l’orrore, la fragilità, la paura. Nelle Comunità in cui tutti avevano amici e parenti sotto i bombardamenti o mobilitati, mentre ascoltavamo o leggevamo continuamente storie terribili di conoscenti rapiti o massacrati, tra particolari agghiaccianti che emergevano continuamente ancora a mesi di distanza, la solidarietà a Israele è diventata per quasi tutti una priorità, che (almeno in parte) ha fatto passare in secondo piano le divergenze ideologiche. Viceversa il mondo esterno è andato esattamente nella direzione opposta, con l’ostilità verso Israele che è cresciuta in modo esponenziale.

Un baratro di incomprensione che si è manifestato in diverse occasioni: nel Giorno della Memoria, per esempio, noi rappresentanti delle Comunità ebraiche abbiamo ritenuto impossibile parlare degli ebrei uccisi ottant’anni fa e al contempo tacere sul peggior massacro di ebrei dopo la Shoah avvenuto da pochi mesi; viceversa fuori dal mondo ebraico molti hanno ritenuto impossibile parlare della Shoah senza accostarla alle vittime civili di Gaza.

Come comportarci di fronte a questo baratro?

Personalmente trovo estremamente sgradevoli gli inviti rivolti a noi, ebrei e rappresentanti delle Comunità, a condannare pubblicamente Israele. D’altra parte non credo neppure che siamo tenuti a difendere il comportamento di Israele sempre e comunque. Per quanto portino a due esiti opposti questi inviti partono entrambi dal medesimo presupposto, che personalmente non condivido, secondo il quale noi ebrei della diaspora dovremmo sentirci in qualche modo come se fossimo israeliani all’estero. Con tutto il bene che possiamo volere a Israele, con tutta la vicinanza che possiamo sentire, noi siamo cittadini italiani, non siamo cittadini israeliani, non abbiamo il potere di mandare a casa Netanyahu, non abbiamo il potere di decidere cosa farà Israele per mettere fine al conflitto e riportare a casa gli ostaggi. Ed è giusto così, a meno che non pensiamo che Israele debba essere lo stato degli ebrei e non quello dei suoi cittadini.

Noi siamo cittadini italiani e abbiamo il potere – e il dovere – di fare scelte politiche in Italia, da cittadini italiani, come singoli e ancora di più (perché molto più visibili) come Comunità. Abbiamo il potere di decidere con chi dialogare, a quali eventi partecipare, a quali manifestazioni aderire, e anche a quali eventi non partecipare e a quali manifestazioni non aderire. Il Consiglio della Comunità ebraica di Torino, per esempio, ha deciso all’unanimità di non aderire a una fiaccolata per la pace il cui manifesto non conteneva il minimo cenno al 7 ottobre.

A mio parere come rappresentanti delle Comunità possiamo – anzi, dobbiamo – parlare del 7 ottobre perché è stato il più grave massacro di ebrei dopo la Shoah e perché si tratta di ebrei assassinati proprio in quanto ebrei. Possiamo – anzi, dobbiamo – parlare di antisemitismo perché come rappresentanti delle Comunità abbiamo il dovere di tutelare il più possibile i nostri iscritti. Abbiamo il dovere di parlare di antisemitismo anche quando assume le forme dell’antisionismo o dell’odio verso Israele, e dunque abbiamo il diritto-dovere di denunciare tutte le critiche a Israele (e secondo me sono la stragrande maggioranza) che contengono in sé qualche elemento di antisemitismo.

In questo momento nelle nostre Comunità la solidarietà a Israele è un impegno a cui è impossibile sottrarsi, anche perché della nostra solidarietà in questo momento Israele ha bisogno davvero, con molte parti del Paese devastate, l’economia in crisi, centinaia di migliaia di sfollati e tanto altro. Abbiamo comunque la possibilità di decidere come e dove indirizzare la nostra solidarietà, e non è poco. Dare una mano a ricostruire i kibbutzim devastati dopo il 7 ottobre, per esempio, è una cosa che possiamo fare tutti insieme, che non ci obbliga ad essere d’accordo con tutte le politiche del governo Netanyahu, e non può essere interpretata così neppure dal punto di vista simbolico.

Io credo che un giornale come HK non possa fare a meno di riflettere su questo baratro e di dare conto dell’atmosfera che si respira oggi nelle nostre Comunità; ancora di più credo che debba riflettere su come le Comunità possono agire in questo difficilissimo momento e su cosa possono fare i singoli iscritti per portare le loro Comunità ad agire in un certo modo.

La voce delle Comunità è ascoltata molto di più di quella dei singoli; il Gruppo di Studi Ebraici lo ha sempre saputo e ha sempre agito di conseguenza. Spero che continui a farlo.

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