di Giorgio Berruto

Pinsk contro Washington, diceva Chaim Weizmann per sintetizzare il concetto. Pinsk, in Bielorussia, era la sua città di origine, Washington quella di Louis Brandeis in quanto giudice della Corte Suprema. L’Europa degli shtetlach, dei pogrom e delle ideologie da una parte, la capitale degli Stati Uniti dall’altra, un oceano in mezzo. Difficile trovare un punto di incontro, eppure è il confronto (e scontro) Weizmann/Brandeis a scandire la storia del sionismo negli anni tra la fine della grande guerra e l’avvento di Hitler in Germania.

Un sionismo solo non è probabilmente mai esistito. Meglio parlare di sionismi. Su quelli tra le due guerre mondiali, con un focus particolare sugli Stati Uniti degli anni venti, si sofferma il recente libro di Antonio Donno, David Elber e Giuliana Iurlano. Il volume è nettamente tripartito, con Elber a introdurre il discorso sul riconoscimento internazionale del sionismo tra 1919 e 1923, Donno che traccia un profilo dei principali problemi con cui il movimento si confronta fino allo scoppio della seconda guerra mondiale e Iurlano che approfondisce la personalità e il percorso di due grandi protagonisti come Weizmann e Brandeis.

Alla Dichiarazione Balfour e alla presenza di una delegazione sionista agli accordi di pace di Parigi nel gennaio 1919, in linea con il principio di autodeterminazione delle nazioni fortemente voluto dal presidente americano Wilson, segue lo smembramento dell’impero ottomano, la conferenza di Sanremo e la nascita del sistema dei mandati, con la Palestina affidata all’Inghilterra. Al tavolo della pace alcune nazioni vengono ritenute già in grado di autogovernarsi, come la Polonia o la Cecoslovacchia, altre non ancora pronte, come la Palestina ebraica, la cui aspirazione all’autodeterminazione ottiene tuttavia il riconoscimento giuridico internazionale. Negli anni che seguono l’Inghilterra congelerà molte delle promesse fatte ai sionisti, nella convinzione che sia il modo migliore per placare le rivolte arabe. Nel 1939 per mantenere l’alleanza con gli arabi che controllano il petrolio e ammiccano al nazismo Londra tradisce la Dichiarazione Balfour con la pubblicazione del Libro bianco, che riduce al minimo l’immigrazione ebraica per i successivi cinque anni nello stesso momento in cui Hitler pianifica la Shoah. Gli arabi sono ritenuti alleati indispensabili, gli ebrei invece sacrificabili come i cechi sull’altare dell’appeasement. Gli ebrei palestinesi organizzano la lotta armata, che peraltro verrà presto sospesa per fare fronte comune contro la Germania. Oltreoceano, nel frattempo, dopo la guerra l’antisemitismo ha raggiunto le masse grazie alla diffusione di testi come i Protocolli dei savi anziani di Sion, e la vittoria dei bolscevichi in Russia ha offerto l’occasione di annoverare gli ebrei, in maggioranza di origine esteuropea e di idee progressiste, tra le quinte colonne dei rossi. Dal 1933 qualcosa comincia a cambiare sia grazie all’elezione del democratico Roosevelt dopo tre presidenze repubblicane consecutive, sia per il compattamento di un mondo ebraico per altri e numerosi versi diviso a fronte dell’emergenza provocata dall’ascesa del nazismo. L’amministrazione Roosevelt, in ogni caso, non ha alcuna intenzione di intromettersi negli affari inglesi in Medio oriente.

Le difficoltà del sionismo a diffondersi presso le comunità ebraiche americane, tra le due guerre, sono ancora maggiori di quelle che il movimento incontra in Europa. Per molti ebrei americani è del tutto evidente che siano gli Stati Uniti e non una piccola porzione di territorio desertico semiabbandonato sulle rive del Mediterraneo orientale la vera terra promessa. E considerano il sionismo un movimento in tutto e per tutto legato all’Europa e ai suoi problemi di nazionalismo e antisemitismo. Le differenze non si esauriscono, inoltre, se confrontiamo i sionisti delle due sponde dell’Atlantico. Se l’obiettivo dei sionisti europei è costruire una nuova nazione per gli ebrei e andarci a vivere, quello dei sionisti americani è contribuire alla costruzione di una nuova nazione per gli ebrei europei perseguitati: non però una nazione dove andare a vivere, ma un paese di cui si intende partecipare all’edificazione politica e soprattutto allo sviluppo economico. Ci sono infine differenze di orizzonti e di civiltà. Lo stesso Weizmann, l’ebreo di Pinsk, si rivolge ai sionisti americani ricordando loro che l’America è stata costruita dai pionieri e per questo “voi dovete fare lo stesso con la Palestina” – parla cioè agli ebrei americani come americani, non come ebrei.

Le divergenze tra sionisti europei e americani si cristallizzano intorno alle due figure di Weizmann e Brandeis. Weizmann afferma la preminenza della politica sia per plasmare la nuova identità ebraica sionista, sia perché il riconoscimento internazionale ottenuto con la Dichiarazione Balfour e a Sanremo non è ancora sufficiente – e infatti verrà rimesso in discussione. Brandeis al contrario ritiene che il massimo sforzo debba concentrarsi sullo sviluppo economico di una regione povera e inospitale, e che il miglioramento delle condizioni economiche e della qualità della vita dei pionieri sia la migliore pubblicità per il sionismo presso gli ebrei ancora incerti. La visione di Weizmann è romantica e idealista, quella di Brandeis – primo ebreo a essere nominato giudice della Corte Suprema nel 1916, non senza contestazioni di stampo antisemita da parte repubblicana – è una visione pragmatica e progressista. A Cleveland nel 1921 le incomprensioni, le divisioni interne e le difficoltà esterne si traducono nello scontro tra le due opposte personalità. Va tenuto conto del fatto che la minore centralità della visione politica nell’edificazione del sionismo per gli ebrei americani corrisponde a un’esperienza diversa, quella di persone e comunità per le quali l’integrazione, pur osteggiata dal diffuso antisemitismo, non è una chimera come per gli ebrei dell’Europa orientale. Brandeis viene criticato dai sionisti europei perché portavoce di un ebraismo assimilato, un ebraismo di ritorno considerato implicitamente come una versione etnica dell’americanismo. È lo stesso giudice d’altra parte a sottolineare che la fratellanza e l’esigenza di giustizia sono alcuni dei lasciti 

dell’ebraismo al mondo, divenuti cardine in un paese di immigrati come gli Stati Uniti. Per questo motivo, conclude Brandeis, “la lealtà verso l’America richiede che ogni americano ebreo diventi un sionista”. Weizmann è invece contestato per la mancanza di un piano di sviluppo economico chiaro e coerente in Palestina e il conseguente sperpero dei fondi raccolti presso le comunità ebraiche e quelle americane soprattutto. La visione romantica nella forma di un messianismo laico contro la pianificazione razionale ed efficiente sul modello delle grandi corporations. La visione dello shtetl contro quella della modernità occidentale. L’identità dura della tradizione contro quella sorridente e sbiadita dal benessere. Pinsk contro Washington.

Antonio Donno, David Elber, Giuliana Iurlano, Il sionismo americano tra le due guerre mondiali, Le Lettere, Firenze 2023, (232 pp., 18 €)

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