di Paola Abbina

Se fino a qualche anno fa il sistema scolastico israeliano era noto per essere altamente competitivo e rigoroso non si può dire lo stesso oggi, accademia compresa. E ancora, se fino ad oggi a preoccupare era solo la scuola ora anche le università israeliane stanno faticando a rimanere in pista, se consideriamo gli altissimi livelli che stanno raggiungendo gli atenei asiatici e gli altrettanto altissimi finanziamenti che questi ricevono dai rispettivi paesi. Come noto, vi sono molte e diverse classifiche. Una recentemente pubblicata è quella del Center for World University Rankings (https://cwur.org/2023.php), dalla quale risulta un calo generalizzato delle università israeliane.

Per quanto riguarda la scuola, la sua struttura è simile a quella di molti altri paesi occidentali, con l’obbligo scolastico che inizia all’età di sei anni e termina a diciotto.

Fondamentalmente in Israele ci sono quattro sistemi educativi ufficiali: quello statale (mamlachtì), quello statale religioso (mamlachtì datì), quello degli ultraortodossi (charedim) e infine quello arabo israeliano. Il mamlachtì e il mamlachtì datì seguono un programma didattico standard e completo con la differenza che il secondo è combinato anche a studi religiosi con più ore di materie ad hoc. Quello arabo, gestito dal Ministero dell’Istruzione in collaborazione con organizzazioni arabe, segue un curriculum nazionale adattato alle esigenze della popolazione araba di Israele.

E poi ci sono le scuole ultraortodosse che si concentrano esclusivamente o quasi su studi religiosi.

La politica di Netanyahu sulla scuola nel corso degli ultimi venti anni (ad esclusione di un misero anno in cui Bennet è stato  Primo Ministro ) e gli stanziamenti statali recentemente finalizzati alla didattica hanno suscitato dibattiti intensi e polarizzati all’interno del paese. Mentre c’è chi sostiene che siano stati compiuti sforzi significativi per migliorare il sistema educativo, altri lamentano invece una serie di problemi che hanno contribuito alla crisi attuale.

La preoccupazione più forte è che le risorse assegnate non siano sufficienti per fornire un’istruzione di qualità ai giovani israeliani. Molti insegnanti si lamentano di stipendi bassi e di una mancanza di risorse adeguate per l’acquisto di materiale didattico e per il mantenimento delle infrastrutture scolastiche, per non parlare del sovraffollamento delle classi che arriva a ben oltre 30 bambini con un solo insegnante per classe (due solo in casi speciali).

A suggellare la crisi del sistema educativo anche l’ultimo studio, quello del PIRLS (Progress in International Reading Literacy Study) che viene rilasciato ogni 5 anni, e che evidenzia che gli studenti israeliani di quarta elementare hanno mostrato un forte calo nel loro livello di conoscenza della lingua madre.

Il PIRLS valuta l’alfabetizzazione in lettura degli alunni di quarta elementare in tutto il mondo. Lo studio di quest’anno ha incluso circa 200 scuole in Israele e ha testato l’alfabetizzazione dei bambini con due testi: una storia e un testo scientifico. Agli studenti sono stati dati testi in ebraico o in arabo a seconda delle scuole che frequentano.

I risultati che sono stati pubblicati hanno mostrato che Israele ha perso circa 20 punti rispetto agli 8-10 punti persi dagli altri paesi, che sono pure in forte sofferenza, piazzandosi solo al 30esimo posto fra i paesi dell’OCSE.
E non diamo la colpa solo all’emergenza causata dal COVID-19. Se già oltre 10 anni fa era stato creato un budget specifico per consentire più ore designate per aiutare gli studenti socio-economicamente più deboli a recuperare il ritardo scolastico rispetto ai loro coetanei, oggi possiamo dire che l’obiettivo è stato di gran lunga mancato, perché lo sforzo economico è stato fortemente insufficiente a colmare il gap. Sono così rimaste indietro le scuole arabe e quelle religiose che hanno ricevuto ancora meno di quanto promesso. Ma questo trend, almeno per le scuole religiose, è in forte controtendenza. Infatti aumentare il budget per l’educazione del mondo ortodosso è il “compito principale” del nuovo ministero dell’Istruzione perché la finanziaria appena approvata ha stanziato milioni di shekel quasi solo per le scuole che prediligono studi sacri e che escludono quelli tradizionali come storia lingua e letteratura, matematica fisica. Ad aggiungere danno alla beffa è che non sono stati stanziati fondi per il miglioramento dello status delle classi e degli insegnanti, vero anello mancante nella catena didattica. Fatto sta che oggi ci sono sempre meno aspiranti maestri, sia per le elementari, sia per le  medie e sia per i  licei.

E lo status degli insegnanti è il primo passo per questa piccola ma fondamentale rivoluzione. La qualità dell’istruzione dipende innanzitutto dalla qualità degli insegnanti, che sono il cuore pulsante del sistema. Per promuovere lo status dell’insegnante, è necessario compiere tre passi immediati: dare loro maggiore autonomia, migliorare le condizioni fisiche in cui operano e aggiornare le modalità di apprendimento a scuola. Sebbene la figura del docente sia uno dei ruoli più significativi per lo sviluppo caratteriale e psichico degli studenti la maggior parte di essi non è soddisfatto e vorrebbe lavorare in modo diverso, in contrasto con il sistema culturale che invece incoraggia la competizione, i voti, l’apprendimento mirato e la memorizzazione. Senza pensare che per tutto l’arco scolastico il maestro, o professore di riferimento (mechanech, letteralmente “educatore”) cambia praticamente ogni anno, raramente ogni due, lasciando studenti e famiglie totalmente disorientati. Come può un insegnante conoscere davvero un ragazzo, con i suoi problemi, difetti pregi e difficoltà in un solo anno? Come si può accompagnare un ragazzo nella sua crescita se non lo si conosce?

Inoltre, in classe raramente è incentivato un confronto o un dibattito vero e proprio su questioni di attualità o politica. Ci sono invece risposte già date a domande predefinite. I ragazzi non sono abituati a confrontarsi e ad esprimere in modo articolato ed approfondito le proprie idee, quanto invece incoraggiati a assimilare nozioni calate dall’alto in modo dogmatico e automatico. I giovani non sanno “pensare” né vengono abituati a farlo. È molto più comodo dare loro risposte preconfezionate e dirigere tutta la loro creatività nello sviluppo di “app”, nella programmazione, con l’intento di formare piccoli imprenditori. È l’anticamera di una società individualista… e del sogno socialista dei padri fondatori non rimane neanche il ricordo!

Come mamma di tre figli, ho avuto modo di toccare con mano due dei sistemi scolastici citati, quello mamlachtì datì e quello mamlachtì. Nel primo sembra a volte di vivere nel Medio Evo, con qualche raro sprazzo di luce che bisogna andarsi a cercare in scuole “sperimentali”; nel secondo mi sono finalmente affacciata all’Illuminismo. Sono comunque rimasta in entrambi i casi con il sapore amaro di un mancanza di lungimiranza, per non aver trovato una scuola in grado di vedere oltre i confini del Paese, oltre gli ultimi 75 anni di storia, a parte un salto enorme nel passato fino alla distruzione dei due Templi dopo essere passati a volo d’uccello sugli altri periodi storici, e senza un respiro di lungo raggio che vada oltre “le diverse identità del Paese” unico argomento di discussione riproposto a tutti i livelli, con le solite domande e risposte.

D’altra parte bisogna riconoscere che in questo sistema scolastico non si trovano situazioni in cui lo studente più preparato in una certa materia rischi di “annoiarsi” in classe. Esiste infatti per le materie fondamentali come inglese matematica e fisica una sorta di esame di inizio anno in cui gli studenti vengono divisi in base alla loro competenza in quella particolare materia: per esempio la lezione di matematica non sarà la stessa per tutta la classe che invece sarà divisa in base all’esito dell’esame in livelli tre, quattro e cinque, che è il più alto. È una sorta di incoraggiamento e sprone a fare di più e allo stesso tempo a creare gruppi omogenei senza rischiare di lasciare indietro nessuno.
C’è anche da considerare che questo sistema scolastico è abituato da sempre ad accogliere ragazzi che non parlano l’ebraico e ad accompagnarli nel loro percorso scolastico fino al loro completo inserimento.

Speriamo in ogni caso che, adesso che è finita l’emergenza Covid, si riprenda a parlare di viaggi in Polonia e di viaggi alla ricerca delle proprie radici, con l’auspicio che non sia solo tanta retorica e poco contenuto, e che presto i nostri ragazzi tornino ad affacciarsi ad una scuola di qualità, pensiero e di vita e non solo di competitività.

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