di Enrico Hirsch

RICORDI DOPO 80 ANNI

 

Nel 1942 avevo quattro anni e il ricordo mio più lontano di quegli anni è legato ai bombardamenti. Abitavamo a Torino nei pressi della Stazione Ferroviaria di Porta Susa, l’Italia era in guerra da due anni. Sul tetto della stazione c’era la sirena dell’allarme che, con un suono lacerante, avvisava dell’avvicinamento di una incursione aerea nemica. Io ero terrorizzato da questa sveglia notturna: subito si doveva scappare in “rifugio”, si correva semplicemente in cantina, ma se la nostra casa fosse stata colpita saremmo tutti morti sotto le macerie: quello scantinato non era una protezione sicura, ma di fianco al portone della nostra casa faceva bella mostra di sé una R maiuscola: segno di “rifugio”.

Il 18 novembre del 1942 a casa dei nonni si stava festeggiando il loro l’anniversario di matrimonio  quando, in pieno giorno, suona l’allarme; quanto mi è rimasta impressa quella discesa in cantina in ascensore  con la zia Maria con in mano le olive verdi dell’antipasto che abbiamo continuato a mangiare in rifugio!

Il 20 novembre il tempio grande veniva bombardato e reso inagibile.

I bombardamenti, perciò, consigliarono i miei genitori ad allontanarci da Torino. Si diceva “bisogna sfollare” e noi eravamo gli “sfollati”.

Ci rifugiammo prima presso la casa di zia Maria a Cherasco. Mi ritornano in mente il grande androne ai cui muri sono appesi i ricordi dei viaggi africani dello zio Giulio morto poco tempo prima che io nascessi. La sua “Balilla” su cui mi divertivo a salire e fingere di guidare. La mia mania di toccare tutto e di rompere le cose che mi capitavano sottomano. E la zia che mi rimproverava e mi ammoniva: “guarda che se ti vede Tugnot (suo uomo di fiducia) ti sgrida!”. La zia era molto conosciuta e benvoluta a Cherasco ma, forse per una delazione, sarà catturata dai nazifascisti insieme alla figlia, mia cugina, e moriranno a Flossenbürg per tifo poco prima della fine della guerra.

Poi ci trasferimmo a Carignano, piccolo centro a 25 chilometri da Torino.

Lì mio padre aveva avviato una attività industriale, la CoPeCa, una conceria di pelli di coniglio che allora con l’autarchia andavano di moda! E noi bambini avevamo il nostro pellicciotto per ripararci dal freddo.  Con noi abitavano anche le sorelle di papà che a causa delle leggi razziali erano state licenziate dal lavoro.

Dal cortile della casa a volte con lo sguardo verso il cielo osservavamo l’arrivo delle squadriglie di aerei che da sud si dirigevano a bombardare Torino. Erano tanti e le loro scie riuscivano in poco tempo ad oscurare il cielo. Di notte da un piccolo finestrino potevamo vedere i bagliori degli incendi del Lingotto.

Ma devo dire che quel periodo fu anche felice per noi bambini. Si andava con i contadini ad assistere alla mietitura del grano, si tornava a casa in cima ai covoni sul carro trainato dai buoi.

Ma nella seconda metà del 1943 arrivarono le difficoltà: innanzitutto io soffrivo di coliche di fegato, così si diceva. E allora il pediatra, il dottor Amos Foa, amico di mio padre e famoso presso le famiglie ebraiche torinesi, consigliò una cura di acque a Chianciano.

Tra i consigli dette anche quello di non separarci e di andare tutti e quattro, i miei genitori e noi due figli piccoli a farci una bella vacanza.

Ma quel consiglio sottendeva evidentemente qualche preoccupazione o qualche intuizione sugli sviluppi della situazione in Italia. Era verso la fine agosto.

Chianciano è in Toscana, è situata in mezzo agli uliveti, un posto di pace. Noi stavamo in un bell’albergo, c’era bella gente, al mattino si andava a bere l’acqua tiepida dal sapore non proprio buono e al pomeriggio c’era anche il prestigiatore che ci intratteneva; i miei genitori fecero anche amicizia con altri ospiti.

Ma in effetti l’Italia, sebbene il governo fascista fosse caduto, era tuttora in guerra e l’armistizio dell’8 settembre ci sorprese lì a Chianciano! Occorreva trovare il modo di tornare a casa!

Il rientro a Carignano fu un’avventura e ne è tuttora vivido il ricordo anche se non sempre completo.

Bisognava innanzitutto andare alla stazione ferroviaria di Chiusi e lì andammo in calesse; allora quando si andava in vacanza la mamma predisponeva tutto il necessario in un baule che veniva spedito. Il baule era stato montato dietro sul calesse, ma non so se sia mai tornato a Torino.

Non vi dico quale caos ci attendeva alla stazione ferroviaria di Chiusi, treni fermi stipati e presi d’assalto. Soldati italiani sbandati che cercavano di tornare a casa e di disfarsi della divisa militare.

Noi piccoli fummo fatti salire sul treno attraverso i finestrini! 

Arrivati a Firenze trascorremmo la notte in stazione in attesa di un treno per Torino. A Pisa degli ufficiali della Wehrmacht salirono sul treno per controlli, i nostri genitori erano terrorizzati, ma per una inaspettata fortuna non chiesero loro i documenti.

L’invasione tedesca dell’Italia dopo l’armistizio fu evidentemente velocissima.

L’ultimo tratto fu fatto su un carro bestiame, la mamma si sentì male e qualcuno fece fermare il treno per soccorrerla in qualche modo, poi di quel viaggio non ricordo più nulla.

I filmati che ci giungono recentemente dall’Ucraina mi hanno fatto rivivere quei momenti!

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