di Beppe Segre

Ragazzo del ‘99

Beppe era nato il 2 gennaio 1899.

Fece dunque parte dei ragazzi del ’99, chiamati alle armi quando non avevano ancora compiuto diciotto anni. Frettolosamente istruiti, inquadrati in battaglioni di milizia territoriale e poi inviati al fronte nel novembre 1917, dopo la battaglia di Caporetto. Il loro giovanile entusiasmo si dimostrò fondamentale nella resistenza sul Piave, nella battaglia decisiva di Vittorio Veneto, e per l’esito stesso della guerra.

Quando i Regi Carabinieri vennero a casa con l’ordine di presentarsi alla locale Caserma di Artiglieria da Montagna per essere arruolato, Beppe ne fu contento, perché temeva che la guerra sarebbe finita prima che lui raggiungesse l’età giusta. “Anche noi dobbiamo fare il nostro dovere, come tutti. Dobbiamo lottare per liberare Trento e Trieste, che sono italianissime, per costruire un’Italia grande e sicura” diceva agli amici passeggiando sotto i portici di Saluzzo.

Se vuoi, potrai fare la carriera militare, come il nonno, che arrivò ad essere colonnello medico” gli diceva il padre. La mamma non disse nulla, ma il suo pensiero corse al Rabbino, che non era più lo stesso da quando il suo figliolo era caduto “sul campo dell’onore”, come si usava dire allora.

Beppe partecipò alla guerra come sottotenente di artiglieria da montagna, e prese parte ad azioni belliche in Val d’Astico, per cui fu insignito della medaglia commemorativa della campagna.

La vittoria mutilata

Ma al ritorno dalla guerra, era un uomo diverso, sofferente e furioso. “Hai visto cosa stanno decidendo le grandi potenze? Una vittoria incompleta, mutilata, ecco quello che ci vogliono concedere – si confidava con gli amici seduti la sera al bar che aveva appena cambiato il nome in “Bar della Vittoria” – Anni in trincea in mezzo al fango e sotto il fuoco delle mitragliatrici austriache, seicentomila vittime, centinaia di migliaia di mutilati e invalidi, tante sofferenze abbiamo sopportato, è stato tutto inutile? Noi reduci siamo stati addirittura insultati dalla folla, come se la guerra fosse stata colpa nostra. Ma non finirà così! Non ci ruberanno i territori che abbiamo conquistato con il sangue!”.

Beppe si riconobbe nei temi cari ai nazionalisti, e aderì naturalmente ai gruppi fascisti che incominciavano ad organizzarsi in un partito. Nel 1919 – 1920 partecipò ad azioni fasciste agli ordini del Comandante Mariotti e, insieme a Ugo Abrate e ad altri camerati, costituì la sezione di Fascio di Combattimento di Saluzzo.

Modena

Intanto si era iscritto all’Università di Modena, attratto probabilmente dalla fama dell’antica Accademia di Medicina, per laurearsi medico – stomatologo nel 1923 e specializzarsi poi in Odontoiatria 2 anni dopo a Bologna.

In tutta l’Italia quelli erano anni di scontri violentissimi tra squadre di nazionalisti e gruppi social-comunisti, ma a Modena la guerra civile assunse toni addirittura feroci.

Il 26 settembre 1921 a Modena la Guardia regia, in servizio di ordine pubblico nel corso di una manifestazione fascista, aprì il fuoco uccidendo 8 squadristi. Tra questi c’era Duilio Sinigaglia, che era il comandante delle squadre d’azione fasciste di tutta la provincia, uno dei più agguerriti squadristi modenesi, ebreo. Anche il commissario di PS, Guido Cammeo, che comandava la Guardia era ebreo, anzi era il figlio del rabbino di Modena.

Ed ebreo era anche il deputato socialista Pio Donati, amico di Filippo Turati e di Claudio Treves, il personaggio più eminente del socialismo modenese e il primo bersaglio delle bande fasciste. Ogni giorno gruppi di fascisti facevano dimostrazioni sotto le sue finestre, con le grida di “morte a Donati”, ebbe lo studio distrutto tre volte, fu bastonato due volte dai fascisti, costretto infine a fuggire prima a Milano e poi, ancora minacciato anche lì, a Bruxelles.

Beppe partecipava a queste azioni, e nel 1922 fu anche ferito a Modena, ma questo non gli impedì di partecipare poco dopo alla Marcia su Roma.

Dobbiamo difenderci, non vogliamo che l’Italia cada in balia dei bolscevichi – spiegava quando tornava a Saluzzo – Mussolini saprà riportare la pace e l’ordine”.

Vittorio

Vittorio era di tre anni più giovane, e gli fu dunque risparmiata la crudele esperienza della guerra. Fu arruolato negli Alpini con la leva del 1902, e dopo poco riformato per deficienza toracica. Per un certo periodo risiedette a Milano per imparare un mestiere: l’accordo in famiglia era che il primogenito studiasse e si laureasse, il minore avrebbe curato la formazione da odontotecnico e poi avrebbero aperto insieme uno studio dentistico.

Nella grande città fece anche la conoscenza di un gruppo sionista, si iscrisse a un corso di ebraico moderno, imparò l’HaTikvà, che a lui piaceva cantare in italiano: “La speme nostra ancor non è perduta di far ritorno alla terra avita…”.

Il Convegno Giovanile Ebraico di Livorno (novembre 1924)

Nel 1924 Vittorio partecipò al IV Convegno Giovanile Ebraico di Livorno, dove i personaggi più importanti dell’ebraismo italiano discussero dell’identità ebraica e della posizione degli ebrei in questa Italia che si avviava a cambiare radicalmente. Qui ebbe l’occasione di incontrare Dante Lattes, leader e animatore dell’ebraismo italiano, Enzo Sereni, con il suo entusiasmo per il Sionismo, Nello Rosselli, che nell’ebraismo privilegiava soprattutto una visione filosofica ed etica.

Certamente Vittorio fu affascinato dalle parole di Nello Rosselli, che si dichiarava non religioso, ma che enunciava così la sua professione di fede: “Io sono un ebreo che non va al tempio di sabato, che non conosce l’ebraico, che non osserva alcuna pratica di culto […] eppure io tengo al mio ebraismo e voglio tutelarlo […] Non sono sionista: non sono dunque un ebreo integrale. Per i sionisti, per gli ebrei integrali, non c’è che un solo problema, quello ebraico”. “Mi dico ebreo – proseguiva Rosselli – “perché è indistruttibile in me la coscienza monoteistica, perché ho vivissimo in me il senso della mia responsabilità personale, e quindi della mia ingiudicabilità da altri che dalla mia coscienza e da Dio, perché mi ripugna ogni pur larvata forma di idolatria, perché considero con ebraica severità il compito della nostra vita terrena e con ebraica serenità il mistero dell’oltretomba, perché amo tutti gli uomini, come in Israele si comanda di amare, come anzi in Israele non si può non amare…”.

Ad ogni altro valore, Enzo Sereni contrapponeva invece il sionismo: bisogna lavorare per il riscatto della terra e la costruzione di uno Stato Ebraico, ove il popolo ebraico possa vivere in gioia e sicurezza. Non c’è salvezza di vita ebraica al di fuori di Eretz Israel.

Vittorio fece amicizia poi con un ragazzo della sua età, che si firmava “un giovane ebreo”, con cui si confrontò circa le difficoltà di mantenere l’ebraismo vivendo in una piccolissima Comunità.

A Livorno ciascuno fece delle scelte e dalla stagione delle parole si passò a quella dei fatti.

Enzo Sereni avrebbe fatto l’alyà, fondato un kibbutz, cercato un modo di convivere pacificamente con gli Arabi, nella guerra sarebbe poi tornato in Italia per combattere i nazifascisti, facendosi paracadutare oltre le linee nemiche; catturato, fu deportato a Dachau ed ucciso.

Carlo e Nello Rosselli divenuti il punto di riferimento dell’opposizione al Fascismo, sarebbero stati assassinati da una banda di sicari su ordine di Mussolini.

Beppe e Vittorio, tornati tutti due a Saluzzo, aprirono insieme lo studio dentistico.

Il Keren Kayemet Leisrael (Il Fondo Nazionale Ebraico)

Vittorio aderì in modo entusiastico al Sionismo, un sionismo di tipo filantropico ed umanitario che scaturiva da un senso di solidarietà verso i fratelli perseguitati e alla ricerca di una patria. Arrivavano notizie drammatiche di pogrom dall’Europa dell’Est, i primi insediamenti agricoli ebraici in Galilea, tra cui Tel Hai e Degania, a partire dal 1920 venivano assaliti dagli arabi, non si poteva rimanere insensibili. “Se non siamo noi ad aiutare i nostri fratelli, chi mai vorrà aiutarli? E se non ora, quando?” questo era lo slogan di Vittorio. E così passava di casa in casa per aprire i bossoli del Keren Kayemet LeIsrael e per sollecitare offerte per l’acquisto di terreni. Abbiamo la relazione del 1928 del Comitato Centrale del Fondo Nazionale Ebraico che per ogni sede di comunità ebraica in Italia (comprendendo anche Bengasi, Tripoli, Rodi e Fiume, che tale allora l’Italia con le colonie), severissima nel sollecitare e pungolare, ché a partire dagli anni ’20 la situazione nel Medio Oriente diventava di giorno in giorno più tesa. Per Torino il giudizio è sferzante “la commissione si è da diversi mesi addormentata, dobbiamo pensare a ricostruirla su più solide basi”. Sulla piccolissima Comunità di Saluzzo il giudizio è invece lusinghiero: “Il lavoro è svolto con ordine e amore dal sig. Segre e ha dato anche quest’anno risultati buoni”.

1938

All’applicazione delle Leggi Razziali, Beppe riuscì a ottenere la discriminazione essendo iscritto al Partito Nazionale Fascista fin dal 1° gennaio 1920, ma nonostante ciò tutta la famiglia era sotto il controllo della polizia.

In risposta ad una richiesta di informazioni formulata dalla Prefettura di Cuneo, il 18 gennaio 1939 il Questore rispondeva che tutti i familiari avevano sempre tenuto una condotta inequivocabile sotto ogni punto di vista. Il funzionario della Questura scriveva: “trattasi di famiglia che per i precedenti morali e politici merita ogni considerazione e riguardo anche per la stima in cui è tenuta dall’intera popolazione di Saluzzo”. Poi cancella con un tratto di penna qualche parola e rimane solo la frase “trattasi di famiglia che per i precedenti morali e politici merita ogni considerazione”; va bene dimostrare buoni sentimenti verso gli ebrei, ma non è opportuno esagerare.

1943

Quando l’Italia fu occupata dai nazisti, Beppe e Vittorio furono obbligati al lavoro coatto all’allestimento del campo di aviazione militare della Grangia: Vittorio era impiegato nell’ufficio, Beppe fungeva da medico del campo.

Entrambi fuggirono il 1 dicembre 1943. Vittorio, dopo aver tentato di espatriare in Svizzera trovò un lavoro in uno studio a Novara presso un medico fascista, che non conosceva la sua vera  identità. Anche Beppe trovò rifugio a Novara, dove il Federale Ugo Abrate, che aveva con lui fondato la Sezione del Fascio a Saluzzo, lo fece lavorare in ospedale con il nome del cognato, disperso in guerra.   

Le loro storie ci parlano di perquisizioni alla ricerca di giudei nascosti, alloggi e mobili sequestrati, documenti falsi, figli nascosti con il cognome della madre, fughe, affanni per 17 mesi.

La Liberazione                    

Vittorio sul suo libro di tefillàh scrisse: “fuggito da Saluzzo il 1° dicembre 1943 per sottrarmi alla deportazione ad opera dei nazifascisti, ritornato a Saluzzo il 5 giugno 1945. Ritornato al Tempio dopo le persecuzioni il 7 giugno 1945”.

Ma da Novara a Saluzzo passò per Milano e trovò il tempo per andare a visitare la tomba di Mussolini, al Cimitero Monumentale del Musocco. Calpestando la terra presso il sepolcro, avrebbe voluto dire al dittatore: “Ti credevi eterno ed invincibile, al di sopra di ogni legge umana e divina. Hai provocato la morte di migliaia, di centinaia di migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini. Ma adesso sei terra nella terra, e non potrai più fare del male a nessuno”.

 I due fratelli, tornati a Saluzzo dopo la Liberazione, trovarono deserta la casa dei vecchi genitori e deserte molte altre case di ebrei.

Riprende la vita normale

Beppe e Vittorio riaprirono lo studio, ricominciarono a lavorare in società, e vissero sereni, circondati dall’affetto dei figli e dei nipoti.

Insieme parteciparono, nel periodo delle elezioni politiche del 1958, ad una manifestazione di piazza per protestare contro il primo comizio del M.S.I. a Saluzzo e per sollecitare l’attuazione della norma della Costituzione che vieta la riorganizzazione del Partito Fascista, sfidando le manganellate della polizia.

 Vittorio partecipò ai Convegni del KKL, orgoglioso di essersi impegnato per il Fondo Nazionale                                                                  Ebraico ininterrottamente per 60 anni. Ad uno degli ultimi Convegni, in una persona anziana,                                                    piegata dall’artrosi e con la lunga barba bianca, riconobbe l’antico amico. “Un giovane ebreo?” chiese. E si abbracciarono senza bisogno di altre parole.

Beppe continuò a esercitare la professione di dentista fino alla fine. E il lunedì ci raccontava di corse con la moto, la sua amata Guzzi rossa, di passeggiate in montagna, di scoperte di trattorie ove si gustavano i migliori tajarin, di barzellette, di Juventus, e tutto di lui ci parlava di voglia di vivere.

Il manifesto funebre che annunciava la sua morte improvvisa lo ricordava come “medico dentista, ragazzo del ’99”.

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