di Alessandro Treves

AAA Cercasi comunicatore/trice reticente. Il candidato o la candidata ideale si asterrà dall’esternare eventuali pensieri personali al mondo esterno. Sono invitati a partecipare al bando i candidati in possesso di uno o più dei seguenti requisiti: bocca cucita; riserbo sulle proprie vicende contrattuali; familiarità con le tecnologie digitali, come ChatGPT, per la generazione di innocue comunicazioni interne; rispetto e apprezzamento per il contributo della romanità, di cui siamo immensamente fieri. Sono richieste flessibilità, attitudine ad evitare i problemi e capacità di lavorare sotto forti pressioni, cedendovi arrendevolmente.

Ho visto l’annuncio e mi sono subito sentito coinvolto, come se descrivesse con singolare acume quei tratti profondi del mio essere, che non ero mai riuscito ad esternare, e forse neanche ad esplicitare a me stesso. Eppure li ho nel sangue, ne sono convinto, sono anzi il senso intimo di una tradizione familiare di astensione dalla critica e riluttanza al commento.

Oltre 120 anni fa a casa del mio bisnonno – racconta una zia nei ricordi privati lasciati ai nipoti – era solito venire un vecchio cugino, Moise Reggio. Non era l’omonimo figlio di Isacco Samuele Reggio, che morì nel 1843 a soli 23 anni, bensì un suo coetaneo, circa, che dopo aver vissuto a lungo a Tunisi era rimasto anziano vedovo, ed era povero in canna. A Firenze i parenti, per aiutarlo, invitavano il ‘Sor Reggio’ a mangiare, ed egli faceva onore alle pietanze, ma con una sua peculiarità: si metteva furtivamente in tasca quello che gli veniva servito, e lo sostituiva “con altro cibo che tirava fuori da un involto sgualcito dalla stessa tasca. Così, mentre tutti, per esempio, avevano nel piatto una fetta di arrosto, si vedeva ad un tratto apparire in quello del Sor Reggio un pezzo di pollo lesso. I grandi pietosamente facevano finta di non vedere, ma noi bambine non potevamo fare a meno di guardare affascinate, specialmente la Marcella, più sfacciatella di me. Il Sor Reggio la fulminava con lo sguardo: ‘Cosa guardi, bambina?’ e i grandi si sforzavano di non ridere. Dalla stessa tasca uscivano i confetti che offriva a noi bambine e che io non ho mai osato assaggiare.”

Eppure, ho scandagliato i numeri del Corriere Israelitico e anche del Vessillo, cui forse il bisnonno avrebbe potuto confidarsi viste le comuni origini vercellesi, e non ho trovato alcuna menzione. Sulle incresciose abitudini del Sor Reggio, che avrebbero potuto ledere l’immagine pubblica che l’ebraismo italiano aveva in quegli anni faticosamente costruito, i miei maggiori seppero mantenere un pudico riserbo.

Invece proprio a Tunisi si era spostato da Mantova il nonno del trisavolo di mia madre, Joseph Franchetti, che aveva messo su una fabbrica di fez, prodotti con lana importata da Livorno e poi smerciati soprattutto a Smirne. L’energico capofamiglia aveva spedito alcuni dei figli a curare gli interessi della ditta nella piazze cruciali; fra loro Reuben e Isache i quali, ciascuno a modo suo, lo mettevano spesso in imbarazzo con comportamenti poco consoni e rispettosi della religione. Ancora più imbarazzato dovette essere però per la visita annunciata di un parente mantovano, forse effettivamente un fratello, come ci rivela una sua lettera a Isache del 1783, esattamente 240 anni fa (me l’ha riportata la Prof Francesca Bregoli, che ha studiato questi scambi epistolari): “… sento dal passeggiere mantovano che il mio fratelo David Vita [Franchetti] si voleva portare qui che prego Dio non venga qui per vedere questo korban di paese però se caso fusse vero lo riceverete como vostro amatissimo zio e io como mio amatissimo fratello e tutto quello li mancasse tanti di vestiti che di orologio lo provederete del tutto, benché spero nel Altissimo che non ne avesse di bisogno, ma si como li tempi si mutano e specialmente oggi giorno, lo mandarate qui vestito da par suo e della nascita che lui è, che altro non vi dico in proposito di uno mio amatissimo frattello.”

Queste notizie sono accennate solo nell’intimità della corrispondenza col figlio.

Ecco, mi dico, questo è l’affetto da mantenere sempre verso i propri confratelli, senza polemiche e snobismi, e soprattutto in comunicazioni rigorosamente interne. Di giornalismo ci sarà modo di parlare in altre sedi.

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