di Franco Segre

La scarlattina e le successive varicelle costringono il personale ospedaliero di Lucerna a trattenermi isolato in convalescenza nel periodo della primavera fiorita, che si può cogliere soltanto scrutando dalla finestra il giardino sottostante. Gli altri compagni di camera sono ormai liberi. Fino a quando dovrò rimanere in questa strana prigione? Per mia fortuna trovo alcuni passatempi che attirano la mia attenzione e fanno sì che il tempo trascorra senza eccessiva lentezza. In particolare mi interessa il sistema telefonico usato per rintracciare i destinatari delle chiamate: ogni medico o infermiere possiede un numero di riferimento che ad ogni chiamata si illumina in tutte le camere e nei corridoi, in modo che l’interessato, dovunque si trovi nell’ospedale, possa rispondere dall’apparecchio telefonico a lui più vicino (ovviamente non esistevano ancora i telefoni portatili). Oggi mi chiedo se, all’età di sei anni, il mio particolare interesse per questo sistema di avvertimento e di chiamata interno all’ospedale, precursore di quelli elettronici moderni, sia stato un segno premonitore della mia futura laurea in ingegneria telefonica. Conoscendo in particolare il numero del medico che cura i malati giacenti nella mia camera, posso controllare la sua mobilità all’interno dell’ospedale. In una bella mattina, mi accorgo che la comparsa del numero relativo al medico curante della mia camera lo fa accorrere proprio per visitarmi, e, con mia grande gioia mi dichiara guarito e non più contagioso. Mi annuncia soprattutto l’arrivo immediato dei miei genitori, venuti apposta a Lucerna per riportarmi a Engelberg. Con due lacrime di nostalgia per l’ottimo trattamento delle infermiere, con i saluti più affettuosi a tutti (in lingua francese) riunisco in fretta il poco bagaglio personale e, opportunamente accompagnato, scendo all’uscita dell’ospedale e riabbraccio papà e mamma che sono pronti per riportarmi ad Engelberg su un’automobile affittata (non so con quali quattrini) e con un autista sconosciuto. Si aspettavano di trovare un figlio dimagrito per le malattie e invece sono felici di trovarmi stranamente ingrassato: evidentemente il cibo dell’ospedale era più abbondante di quello concesso ad Endelberg ai profughi rifugiati.

Ritornato a Engelberg, la cittadina mi è quasi irriconoscibile: le vie, i tetti ed i campi non sono più coperti da strati di neve; gli alberi ed i prati sono fioriti. Mi aspetta inoltre una doppia sorpresa: non vengo depositato all’albergo Margerite dove ero stato prelevato per la scarlattina, ma nel centro del paese, al grand hotel Titlis, dove dimorano e lavorano papà e mamma (si tratta di una concessione per pochi convalescenti). Inoltre c’è pure mia sorella Nuccy, che in precedenza era stata in collegio a Lugano e poi era stata ospitata a Locarno come lavoratrice “alla pari” da una coppia di adulti ex piemontesi che abitavano nella bella cittadina lacustre. Dormiamo, tutti quanti, in una camera matrimoniale equipaggiata con quattro letti. Di giorno il papà e la mamma riprendono le loro attività lavorative, rispettivamente di capo-pelatore di patate e di sorvegliante dei bambini presso l’albergo Margerite. Di giorno ci raccontiamo vicendevolmente le vicende trascorse, godendo delle notizie che giungono dai paesi occupati dai nazi-fascisti e che ci lasciano sperare un armistizio vicino.

L’hotel Titlis è pieno di rifugiati ebrei. Alcuni provengono dall’Italia, altri dal nord-Europa. Il rapporto tra i due gruppi non è facile, non solo per le differenze linguistiche, ma anche e soprattutto per le loro usanze. Le differenze emergono soprattutto nella pronuncia dell’ebraico, nei riti e nella cantillazione delle preghiere e delle letture bibliche. I nordici, essendo in maggioranza, vogliono imporre le loro tradizioni ashkenazite, e gli italiani, abituati al rito italkì, si ribellano. Si arriva così ad una separazione: si formano due gruppi, ciascuno de quali stabilisce di pregare con le proprie usanze. Chi cerca di porre concordia tra i due gruppi è il Rabbino Zimmerman, che, abitando a Engelberg, interviene e si sente al di sopra delle parti. Ecco il succo del suo discorso:

“Ma come è possibile tutto questo? Siete tutti scappati dai vostri paesi. Siete giunti in luoghi che vi hanno accolto, che vi danno da mangiare, bere e dormire, che vi danno la possibilità di svolgere lavori retribuiti, che vi danno la facoltà e la libertà di pregare! Che cosa volete di più? Nei momenti in cui siete raccolti insieme volete proprio dividervi? Vergognatevi! D’ora in poi pregherete insieme, con alternanza dei vostri riti: una volta con il rito tedesco e un’altra volta con quello italiano! Avrete così la possibilità di imparare le vostre reciproche usanze!”.

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