Donne e ricerca scientifica

Intervista di Manfredo Montagnana

Cara Bice, da tempo abbiamo scoperto di essere quasi “vicini di casa”, io cittadino di Baldissero da quasi cinquant’anni e tu spesso presente nella casa di Rivodora. A che cosa si deve questo rapporto con il piccolo centro collinare?

La mia passione per il verde risale a molto lontano. Ho ricordi struggenti del giardino dei Levi, in via Bezzecca, dove passavo intere giornate da bambina a giocare con mio cugino Stefano (Levi Della Torre) con foglie e bacche o a creare  ruscelletti d’acqua che formavano dighe, come ricorda  Guido Neppi Modona, anche lui frequentatore del luogo ed amico dei fratelli maggiori di Stefano. Poi c’era la casa a Sassi dove, dopo la guerra, si erano ritirati i miei nonni paterni. Lì avevo licenza di scorrazzare da sola per i prati o di arrampicarmi sugli alberi. Avevo sempre desiderato una casa con giardino e, per quanto molto ampio, l’alloggio di Torino mi stava “stretto”.

Dopo un lungo soggiorno di lavoro a Bath (UK), ed aver vissuto con i due figli piccoli in un bungalow immerso nel verde, io e mio marito considerammo se trasferirci a Torino in collina, ma la cosa ci parve ardua considerando l’impegnativo lavoro di entrambi all’istituto Chimico, che peraltro distava di pochi isolati dal nostro alloggio e mi aveva permesso di venire ad allattare i miei figli tranquillamente tra un esperimento e l’altro.  Optammo quindi per una casetta per i fine settimana e le vacanze e fortuna volle che la trovassimo proprio a Baldissero, frazione Rivodora.

I nostri periodici spostamenti non erano “rose e fiori” ma bagagli e vettovaglie in caotico cammino. Non a caso divenne lessico famigliare un detto francese: «Qui a deux femmes perds son âme, Qui a deux maisons perds sa raison.»

La casa di Rivodora ha avuto nel tempo numerosi meriti, tra i quali festeggiare con un numero vasto di amici il Primo Maggio, ricorrenza che dal 1980 solo il Covid ha interrotto.  Poi i matrimoni dei figli, i capodanni, numerose grigliate, compleanni ecc. All’arrivo del lockdown eravamo casualmente qui e nostro figlio medico ci intimò di restarci. Fu per noi un ottimo e pacifico periodo, rattristato solo dalle brutte notizie che si sentivano e dal non poter vedere figli, nipoti ed amici. Ma qui siamo stati molto bene, i vari commercianti di Baldissero – che non avevamo mai frequentato – ci accolsero con gentilezza e, tramite i volontari o consegnando personalmente il cibo, non ci hanno mai fatto mancare nulla, così come i vicini di casa sono sempre stati pronti ad aiutarci. In conclusione, siamo rimasti domiciliati qui e ormai scendiamo in città non più di due giorni alla settimana.

Il tuo impegno per il riconoscimento del ruolo delle donne nella società non è recente, risale agli anni sessanta quando sei stata attiva nei movimenti “femministi” tanto da fondare allora un gruppo informale “Donne e Scienza”. Di questa tua attività ci avevi parlato nell’intervista del 2012: secondo te è cambiato qualcosa in questi dieci anni nei confronti della presenza femminile nei vari campi, in particolare nell’ambito della ricerca? Potresti citare qualche figura significativa?

Da ben più di un decennio vado affermando che l’unica rivoluzione compiuta nel secolo passato è quella delle donne. Alcuni arricciano un poco il naso, ma molti/e ormai concordano, incluso personaggi illustri come Eric Hobsbawm. In questo secolo la mia impressione è che le donne continuino a procedere, pur con lentezza, ad occupare posizioni apicali. Per esempio, si è arrivati a 10 rettore donne in vari atenei a partire da zero. Sempre una minoranza comunque.

Figure significative di donne appaiono in tutti i campi, molte anche aperte e simpatiche  come lo è certamente Samantha Cristoforetti. E sfatano il luogo comune che ad un successo scientifico non corrisponda un bell’aspetto. Basta vedere l’immagine di  Jennifer Doudna  e Emmanuelle Charpentier che tenendosi per mano vanno a ricevere  il premio  Nobel, frutto della loro proficua collaborazione.

Nomi ve ne sono molti da citare, persone, in genere, molto interessate non solo alla loro scienza, ma anche a vari aspetti della società.  Mi vengono in mente subito la simpaticissima Margherita Hack, che fece ottima divulgazione, o Lynn Margulis, che realizzò  importantissime scoperte sull’origine delle cellule degli organismi superiori e che, come mi raccontò una amica che ebbe occasione di conoscerla bene, si era messa a studiare l’italiano per poter leggere Primo Levi in lingua originale. O  Ada E. Yonath che, come seppe del premio Nobel, disse ai giornalisti “ora la pace con i palestinesi”.

Il problema dell’avanzata delle donne nel mondo della ricerca esiste comunque ancora. Riguarda forse più quelle che occupano posizioni intermedie, spesso ancora sorpassate dai colleghi maschi. Tuttavia ormai da più di una decina di anni, con l’avvento al potere delle destre – e quali destre! – ho ritenuto vi fossero nella nostra società problemi più gravi di cui occuparsi: la salvaguardia dei diritti ottenuti, le povertà,  le crescenti disuguaglianze e ovviamente ambiente, ecologia e surriscaldamento del pianeta. Ho quindi preferito agire sul territorio in una associazione, Donne a difesa della società civile, con cui, nel nostro piccolo, cerchiamo di fare da tramite tra cittadini ed istituzioni, suggeriamo agli uni la partecipazione (ad esempio al voto) agli altri le necessità locali ed i possibili miglioramenti.

Da molti anni ti sei interessata di inquinamento, soprattutto quello dovuto all’amianto: mi pare che circa venti anni fa fu ipotizzata la sua presenza nei soffitti di alcune aule del Politecnico. Ti ricordi di casi simili? Se ne sono ripetuti in edifici pubblici durante questo decennio?

L’inquinamento da amianto è presente in numerosi edifici, specie sotto forma di Eternit che diventa molto pericoloso quando si sgretola.  In alcuni casi è stato usato amianto puro depositato a spruzzo per coibentazioni termiche ed acustiche. È uno degli utilizzi peggiori perché tali coibentazioni sono fragili e portano ad un numero molto elevato di fibre aerodisperse. Se ne fece un uso massiccio nelle navi, in particolare in quelle da guerra più soggette ad incendi, dove ogni locale veniva coibentato a scopo ignifugo. Ci fu una questione, abbastanza recentemente, circa le compensazioni richieste da alcuni ex militari che avevano contratto malattie amianto-correlate.  Molto recentemente all’Università a Palazzo Nuovo si sollevò il problema amianto per via di residui delle bonifiche precedenti e della presenza di amianto nei tappeti di linoleum. L’intera sede fu chiusa per relativamente lungo tempo, con grave disagio di studenti e docenti. Ben più grave era la situazione prima di una precedente bonifica, che aveva eliminato gran parte dell’amianto presente. Palazzo Nuovo, infatti, fu costruito con molto amianto in varie parti dell’edificio negli anni ’60, quando ancora lo si utilizzava. Ci furono varie vittime tra chi lo frequentava in quegli anni, tra cui una mia cara amica, scomparsa di recente proprio a causa di un mesotelioma, il tumore riconducibile praticamente solo a certe fibre minerali aerodisperse.

A Casale Monferrato un numero esorbitante di locali pubblici e privati aveva amianto nei soffitti ed in varie parti degli edifici. Una attenta bonifica condotta dalla precedente amministrazione riuscì a bonificarli tutti, come ben illustrato nella mostra “Le Vie dell’Amianto” che facemmo nel 2017 nei cortili del palazzo dell’Università in via Po.

Un’ultima domanda che riguarda i tuoi studi universitari e le successive ricerche: hai passato anni nello storico edificio di corso Massimo d’Azeglio nel periodo in cui vi lavoravano studiosi importanti come Ricca e Zecchina. Cosa ti suggeriscono questi ricordi?

All’inizio direi squallore culturale, docenti mediocri, chiusi in se stessi, che al massimo si recavano, rigorosamente solo i professori ordinari, a convegni nazionali. Ambiente chiuso e gerarchico. Svettavano figure come Ricca e Zecchina, ottimi docenti, affascinanti le loro lezioni, ma avevano poco potere. Questo mentre tra i fisici già si respirava  un’aria internazionale e si tendeva a darsi del tu, indipendentemente dal ruolo ricoperto. Poi, con l’aiuto e l’entusiasmo di giovani ricercatori, pronti a seguire i più bravi e non i più potenti, i docenti migliori riuscirono a risollevare la situazione, instaurando  proficui scambi con l’estero ed altre realtà italiane, fino ad arrivare progressivamente a livelli di eccellenza.

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