di Bruna Laudi

Ori Sierra, figlia di Ornella e Sergio Sierra, rabbino prima a Bologna poi a Torino dal 1960 al 1985, è stata maestra alla scuola ebraica Colonna e Finzi ed attualmente è vicepresidente della sezione torinese dell’Amicizia Ebraico Cristiana. È nella commissione culto e nella commissione cultura della Comunità.

Da pochi giorni ci ha lasciato la sua mamma Ornella Pajalich Sierra, figura molto amata a Torino che viene ricordata in altre pagine del giornale.

 

 Prima di tutto una curiosità mia: sei nata a Torino o a Bologna?

Noi figli siamo tutti nati a Roma perché mia madre andava sempre a partorire lì dove c’era la sua famiglia.

 Tu sei la seconda di tre fratelli: che ricordi hai di bambina? Quali ruoli avevano i tuoi genitori all’interno della famiglia?

I miei ricordi di bambina sono buoni: avevo una famiglia estremamente amorevole, che dimostrava il suo affetto. Non per questo potevamo fare tutto quello che volevamo: esisteva un’autorità genitoriale, che veniva però esercitata sempre con pazienza. Mia madre talvolta si mostrava un pochino più dura, rispetto alle mie intemperanze, mio padre quasi mai.

Quando ero molto piccola, quindi nel periodo in cui abitavamo a Bologna, mia madre era casalinga ma si è sempre molto immersa nella vita rabbinica, che lei ha amato moltissimo. Le era congeniale collaborare con mio padre, incontrare le persone della comunità, raccoglierne con grande empatia sfoghi e confidenze, dare sostegno nei limiti del possibile, benché fosse molto giovane (è arrivata a Bologna quando aveva vent’anni e ne è venuta via quando ne aveva trentuno).

A Torino ha poi insegnato a scuola ebraismo continuando a essere attiva in tutti i settori della vita comunitaria, con la grande carica umana che l’ha sempre contraddistinta e con un impegno quantitativamente maggiore che a Bologna, comunità molto più piccola.

Cosa ha significato per te essere la figlia del Rabbino? 

Essere figlia del Rabbino è stato positivo per me, perché mi ha dato una sorta di accesso facilitato all’ebraismo, che io ritengo una cultura, una visione della vita, per usare termini inadeguati ma un po’ più ampi di religione, di grande valore. Voglio chiarire che l’Ebraismo non arriva in eredità e sempre bisogna approfondire la propria conoscenza, ma indubbiamente essere abituati fin da piccoli all’ osservanza facilita molto quando ci si avvicina nel tempo in modo più consapevole e adulto. Come avevo detto a una commemorazione in comunità, ho avuto da mio padre anche vere lezioni istituzionali ma, oltre a quelle, ci sono state importanti discussioni, sollecitate per esempio da situazioni scolastiche nel passaggio alla scuola statale e, fin da piccola, ” pillole” di ebraismo,  somministrate in momenti vari, quando se ne presentava l’ occasione, per esempio sul rispetto degli animali, delle cose, sul rapporto maestro allievo, che mi hanno fatto capire come l’ebraismo si misurasse con problemi e situazioni della vita quotidiana e mi hanno sollecitata nel tempo ad approfondire sempre di più.

Nei primi anni ’70 tuo padre è stato coinvolto in una polemica con il Consiglio della comunità che si risolse con un referendum: a grande maggioranza gli ebrei torinesi si espressero a suo favore. Come ti ha segnato questa esperienza?

Un consigliere avrebbe voluto un numero di ore prestabilito di presenza all’Ufficio rabbinico ma il lavoro del Rabbino non si esplica unicamente in ufficio: ci sono visite agli ammalati o ad altre persone in difficoltà, partecipazione a dibattiti, conferenze con relativa preparazione, redazione di articoli, funerali, insegnamento a scuola…

Inoltre, mio padre aveva avuto una cattedra di filologia semitica a Genova, che lo impegnava lunedì pomeriggio e martedì mattina. L’orario era molto comodo, scelto apposta per poter dedicare alla comunità le ore restanti delle due giornate. Non era né il primo né l’unico ad affiancare una cattedra universitaria all’attività rabbinica: infatti, i probi viri dell’Unione gli diedero ragione. Ciononostante, si arrivò ad un referendum nel quale la maggioranza della comunità si espresse a favore del Rabbino. La contesa fu così risolta. Negli anni successivi lentamente le cose si normalizzarono ma la lacerazione  e la contrapposizione di diverse concezioni del ruolo rabbinico furono grandi.

Ho certamente risentito delle polemiche, anche feroci, che hanno travagliato la comunità.

Queste polemiche hanno ovviamente dolorosamente coinvolto tutta la famiglia e per molto tempo, pur dopo la fine della ” bufera”, non è stato facilissimo rapportarsi con tutti i membri della comunità. Poi, col passare del tempo, grazie a manifestazioni di affetto e solidarietà, a modifiche di atteggiamenti e anche alla consapevolezza che problemi e tensioni affliggono tutte le Comunità, il disagio è rientrato e devo dire che sono molto affezionata alla comunità di Torino.  Sono anche molto legata a Ferrara, da cui ha origine la famiglia di mio marito, dove trascorriamo in genere i mo’adim (festività ebraiche), ma l’affetto per l’una non annulla quello per l’altra.

E come madre quali sono stati i punti di riferimento più importanti, legati alla tua esperienza familiare?

Come madre, avendo come modello i comportamenti dei miei genitori, mi sono dedicata molto ai miei figli, stando con loro quando potevo, parlandoci, leggendogli, coccolandoli, però penso di non essere stata adeguata in tutto, forse a causa di alcune insicurezze di fondo.

Sono certa di aver fatto degli errori e questo mi pesa molto. Ho patito anche il fatto di non avere le nostre famiglie vicino, quantunque i miei venissero regolarmente a trovarci. L’orario dell’asilo era solo mattutino, per i primi due anni non c’era la mensa della scuola primaria. C’è stato un po’ di sovraccarico. So bene di non essere stata la sola a vivere una situazione del genere, a cominciare dai miei stessi genitori, però non tutti affrontano le medesime situazioni nello stesso modo. Inoltre, ho tendenzialmente una certa difficoltà a chiedere aiuto e questo non è un bene.

Sei stata una maestra amata e stimata: cosa ti ha dato la tua professione, cosa ti sei portata dietro e hai ancora utilizzato negli anni successivi?

La mia professione mi ha dato una maggior conoscenza dei bambini ma anche molto dei genitori, che ho capito poi sempre meglio nelle loro ansie e atteggiamenti (non tutti), quando mi sono trovata nella stessa condizione. Devo dire però che ho sempre mantenuto un po’ la tendenza a privilegiare le ragioni degli insegnanti, avendo vissuto la loro condizione in prima persona. Infatti, i miei figli mi hanno anche rimproverato di aver sempre dato ragione ai professori piuttosto che a loro.

Per me è stato molto motivante insegnare nella scuola ebraica, e ho sempre avuto la fortuna di avere colleghi molto collaborativi, con i quali i rapporti erano buoni, anche in caso di divergenze. Ricordo che, nonostante la fatica e l’impegno, spesso durante le riunioni facevamo tante risate, che alleggerivano la tensione delle decisioni e delle scelte. Ricordo anche con molto piacere la soddisfazione al termine di giornate impegnative e faticose, come i festeggiamenti di Purim o la celebrazione di Yom ha Shoà.

Una cosa importante che mi sono portata dietro dal mio lavoro, non la sola, è l’attenzione a ricercare sempre la chiarezza nella comunicazione, che ho cercato di affinare nel parlare anche agli adulti, cosa non necessariamente più facile che parlare ai bambini.

Da anni sei un membro attivo della Amicizia Ebraico Cristiana: come ti sei avvicinata a questo gruppo, che ruolo hai e, anche nel caso di questa esperienza, cosa hai acquisito?

La mia collaborazione con l’Amicizia Ebraico Cristiana è cresciuta gradualmente. Inizialmente Nedelia Lolli Tedeschi, mia cara collega per vari anni, mi ha invitato a partecipare con lei ad alcune iniziative. Successivamente Franco Segre ha fatto il mio nome per altre attività, anche piuttosto impegnative, come cicli di letture a due voci. Quando sono andata in pensione Franco mi ha proposto di tenere il corso di avvicinamento all’ Ebraismo, per la parte basilare, perché lui era andato avanti col gruppo che conduceva da tempo ma, nel frattempo, c’erano nuovi ingressi che necessitavano di conoscenze di base. 

Ho accettato e l’esperienza è durata circa sei anni: purtroppo ho dovuto interrompere a causa della pandemia. Il corso mi ha dato delle soddisfazioni, insegnavo di nuovo ma a un’utenza diversa, gli adulti: un’esperienza nuova e stimolante, senza la seccatura degli adempimenti burocratici che affliggono tutti gli insegnanti. È stato bello vedere che per molti l’ebraismo costituiva una scoperta. L’anno prossimo penserei di riprendere l’attività.

Quando sono andata in pensione, sono stata inserita nel direttivo dell’AEC, con la quale collaboravo ormai da anni ma senza incarichi formali. In questo ambiente ho conosciuto persone interessanti e desiderose di sapere e io stessa ho imparato molto su varie realtà: contemporaneamente cerco di condurre un’azione contro l’antisemitismo, spiegando cos’è l’ebraismo, in occasione di conferenze e relazioni e attraverso l’organizzazione di incontri. È un lavoro ciclopico, ma talvolta ho l’impressione che qualche piccolo passo in questo senso si riesca a fare. Non cerco di abbellire l’ebraismo, non è il mio scopo, non ne ha bisogno e non ci si pone in questi termini, ma di dare conoscenze corrette, quanto meno per sradicare pregiudizi antichi ma ancora presenti.

Tutte queste esperienze: l’attività con l’AEC e il corso, come tutte le richieste di interventi e conferenze, mi danno inoltre l’occasione e lo stimolo per approfondire aspetti che spesso conosco meno e questa è una buona opportunità. Per questo motivo avevo accettato di fare queste collaborazioni anche quando lavoravo, sia pure con maggior fatica.

 Avete mai pensato di trasferirvi in Israele come prima di voi avevano fatto i tuoi fratelli e i tuoi genitori? Quali potrebbero essere i motivi di attrazione e quali invece gli ostacoli?

Da ragazza pensavo che avrei sicuramente fatto l’aliyah (“salita” in Israele), ma quando ci sono stata la prima volta mi è parso tutto molto difficile. Anche con mio marito Raffaele, parecchi anni fa, avevamo preso in considerazione un’ipotesi di questo tipo che però non abbiamo realizzato: l’ostacolo maggiore è stato la mia difficoltà a cambiare radicalmente vita.

Ho un grande attaccamento nei confronti d’Israele: penso che la sua nascita sia stata un evento di enorme importanza, a prescindere dalle gravi difficoltà della situazione attuale, interna ed estera, e che in un periodo breve abbia raggiunto conquiste incredibili, però ci sono alcune differenze di mentalità, anche proprio in ambito ebraico, che mi risultano difficili da accettare. Mi sento in qualche modo in difetto, perché ho sempre pensato che sia importante agire per migliorare dall’interno, però è anche tanto difficile farlo davvero.

La questione del mio rapporto con Israele è, al momento, un nodo irrisolto.

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