di Beppe Segre

Sazio di giorni e carico di ricordi di valorose imprese, è morto a 97 anni, Enrico Loewenthal, uomo generoso, ironico e gentile, che non perse mai il piacere di raccontare, e che ebbe il coraggio di combattere i nazifascisti, per dignità e non per odio, deciso a “riscattare la vergogna e il terrore del mondo”. per usare le parole di Piero Calamandrei.

Lui amava presentarsi così: “Mi chiamo Enrico Loewenthal, sono nato a Torino. Ho visto il mondo in lungo e in largo, sono un industriale, sono ebreo. Durante la Guerra di Liberazione sono stato il partigiano Ico”.

Partigiano gentile

Enrico Loewenthal nasce nel marzo 1926 a Torino, da un padre tedesco che si era trasferito nel 1900 dalla Germania a Torino.

Diventa partigiano prima nella 11° Brigata Garibaldi, poi nella Colonna GL – Renzo Giua nelle Valli di Lanzo, per passare infine in Val d’Aosta con le formazioni autonome in qualità di comandante delle Valli del Gran San Bernardo.

Siamo dunque nelle montagne sopra Aosta, ai confini con la Svizzera. Giù ad Aosta i fascisti delle Brigate Nere, della X-Mas di Junio Valerio Borghese sono stanziati insieme alle truppe tedesche. “Noi partigiani – raccontava Ico –  avevamo poche munizioni e pochissime armi, perciò ci limitavamo soltanto a pattugliare il nostro territorio anche per evitare possibili rappresaglie dei tedeschi sui civili”. 

Fu da una di quelle pattuglie che Ico fu avvisato che in una baita sopra il villaggio di Doues c’erano due tedeschi. “Tolsi la sicura al mitra, entrai nella baita e molto rapidamente, a mitragliatrice spianata intimai ai due soldati, in tedesco: “Hände hoch, bitte!”, (mani in alto, prego) e con mia grande sorpresa questi due giovanotti si arresero.

L’incredibile non è che quei soldati di Hitler, due veterani di guerra, si arresero a me, un 18enne con il volto da bambino. Più strano ancora- continua – è che si arrendevano a un partigiano che gli diceva, in tedesco, “prego!”. E che per giunta, ma questo i soldati non potevano immaginarlo, aveva in canna solo una ventina di colpi., Grazie alla stravagante azione del giovane partigiano comunque, per quei due soldati – Ludwig Seiwald e Arthur Wissner – la guerra era finita.

“Quella sera Ludwig ed Arthur mangiarono con noi – spiega Loewenthal – e la mattina dopo dissi a un partigiano di accompagnarli in Svizzera e di dargli un pacchettino”. Conteneva il rullino con le foto “e un biglietto con il mio vero nome e l’indirizzo a Torino”, ricorda Enrico Loewenthal. 

Grazie a quelle informazioni, nel dopoguerra Ludwig riprese contatto con il “suo” partigiano. “Mi scriveva lettere di auguri in cui mi ringraziava per avergli donato la vita, diventammo amici e ora che lui è morto – raccontava Ico – è sua figlia Sylvia a mantenere i contatti. E a raccontare agli italiani che incontra a Monaco la storia di suo padre, soldato nazista, fatto prigioniero da un partigiano ebreo che lo salva accompagnandolo in Svizzera.

Dal dicembre del 1944 i tedeschi setacciano le valli, promettendo taglie a chi denuncia gli ebrei. E Ico diventò presto il comandante del gruppo che il 27 aprile 1945, con un paio di camionette tedesche, due cannoni da 88 e mitra, libera Aosta.

“Mi ricordo che ero su quella camionetta tedesca, il mitra imbracciato e la gente ci applaudiva. Ma giunti a Piazza del Municipio la trovammo occupata dalla X-Mas e Brigate Nere”. Armati sino ai denti. Momenti di panico in cui fascisti e partigiani si guardano in cagnesco con le dita sul grilletto. Ma ancora una volta il giovane Ico dà ai suoi il giusto comando: “Dissi di indietreggiare per dare ai fascisti il tempo di sgombrare il campo; fu così che, partiti loro, occupammo Aosta”.

Ma la camionetta tedesca, il cannone da 88 e i mitra dove li aveva scovati l’intraprendente partigiano? “Un giorno, era l’inizio di aprile, una colonna di duecento tedeschi, con cingolati e cannoni risaliva lo stradone verso il Colle del San Bernardo”.

Quel giorno Ico ebbe l’audacia di bluffare: “Al riparo di un muro urlai ai tedeschi: fermatevi, se avanzate ci sarà un combattimento e molti di voi moriranno!”. E la colonna di Hitler si fermò. Alla richiesta dell’ufficiale nazista – come mai parli così bene il tedesco? Vieni fuori! – lui uscì allo scoperto gridando: “Sì, ma voi non sparate, Bitte!”. 

Fu così che, un partigiano armato davanti, uno dietro, Ico si ritrovò al centro della colonna tedesca che, disarmata, marciava sui tornanti del Col Menouve verso la Svizzera.

I tedeschi, in cambio della vita, avevano lasciato ai partigiani armi ed auto.

La storia ha due morali, raccontava Ico con un sorriso: la prima è che bisogna imparare le lingue e la seconda è che ci si deve comportare educatamente anche nelle circostanze più difficili.

Con Wiesenthal

Finita la guerra, Loewenthal collaborò a lungo con Simon Wiesenthal, assistendolo nel suo lavoro di individuazione e segnalazione alla giustizia dei criminali di guerra nazisti. Questo perché Simon Wiesenthal parlava  solo tedesco e non l’italiano e neppure il francese, indispensabili per intervistare testimoni e familiari delle vittime, e svolgere le indagini circa i colpevoli delle stragi avvenute in Italia. Enrico parlava correntemente il tedesco – suo padre, nato in un paese vicino a Stoccarda, si era trasferito a Torino nel 1900 – oltre l’italiano, l’inglese e il francese. La sua collaborazione era davvero preziosa.

Quando, una decina di anni fa, la Città di Torino, su proposta della Comunità Ebraica, deliberò di intitolare un giardino alla memoria di Simon Wiesenthal,  alla cerimonia di inaugurazione partecipò anche Loewenthal, che raccontò della ricerca di giustizia condotta insieme e in particolare il lavoro che aveva permesso di smascherare  e di far arrestare il Colonnello delle Waffen SS Joachim Peiper, l’ufficiale tedesco responsabile della tremenda strage di Boves, nel Cuneese, nel settembre 1943: a Boves l’odio nei confronti dei criminali era palese; si erano riuniti intorno a Wiesenthal e Loewenthal  molti testimoni della strage. Lì, in piazza, Ico traduceva i racconti dei testimoni, che tra l’altro parlavano di un comandante che avevano sentito chiamare “pepe” o “pape” e tanto bastò a Wiesenthal, una volta rientrato a Vienna e una volta consultati i suoi elenchi, per comunicare che aveva identificato il criminale in Joachim Peiper colonnello delle SS come responsabile dell’eccidio.

Wiesenthal presentò poi una denuncia alla magistratura tedesca, che condannò il comandante Peiper, allora magazziniere alla Volkswagen, ad una pena, peraltro assai lieve.

In Lettonia

Dopo la guerra, intrapresa l’attività imprenditoriale, per motivi di lavoro si trovò a visitare la Lettonia, ed a studiare cosa era avvenuto nei Paesi Baltici durante gli anni tremendi della Shoà.

L’eccidio di massa programmato della maggior parte degli ebrei residenti nei Paesi Baltici cominciò nell’autunno 1941. Qui la Soluzione Finale venne affidata a una unità mobile di intervento chiamata Einnsatzgruppe A. Questa formazione ed i suoi sottogruppi, erano comandati da un numero limitato di ufficiali tedeschi ma gli artefici della maggior parte delle uccisioni nelle città grandi e piccole furono soprattutto lituani, lettoni, ed estoni. Alla fine del conflitto erano rimasti in vita solo 20.000 ebrei dei Paesi Baltici, il 6 % della popolazione ebraica dell’anteguerra. Solo pochissimi tra gli assassini furono processati in tribunali.

In questa realtà, Loewenthal, che si trovava in Lettonia per motivi di lavoro, svolse un’azione estremamente importante per recuperare la memoria di quanto era successo. Si impegnò a lungo, tornando molte volte a Riga per 4 anni per ritrovare le fosse delle stragi operate in Lettonia dai nazisti, coperte da vegetazione, di cui non si conosceva la posizione. Recuperò carte e documenti dei treni che avevano deportato i cittadini tedeschi ebrei, anche grazie al costante appoggio di Simon Wiesenthal, trovò le fotografie degli ebrei spogliati prima di essere fucilati, trovò immagini di torture raccapriccianti, seguì la raccolta dei materiali e l’edificazione a Riga del monumento alle Vittime della Shoah che il governo tedesco aveva finanziato integralmente nei luoghi dove Loewenthal aveva ritrovato le fosse.

 Varie

Non perse mai la capacità come cittadino impegnato di indignarsi e di darsi da fare per migliorare il mondo: quando il Ministro dell’Economia Francesco Forte nel 1986 si accingeva a erogare un contributo finanziario di sostegno all’Etiopia, intervenne per chiedere che eventuali aiuti fossero legati alla soluzione di un grave problema umano: l’interruzione improvvisa del flusso migratorio dei falasha  in Israele aveva smembrato molte famiglie e creato severo disagio ad una popolazione che desiderava solo nella sua totalità emigrare nella terra dei padri. Poneva inoltre la domanda: perché finanziare una crudele dittatura?

Quando poi il Ministero del Tesoro, nel 2001, richiese il “certificato di Razza Ebraica” per erogare un vitalizio agli ebrei deportati, Loewenthal fu il primo a denunciare questa espressione scandalosa. Incontrò il filosofo Bertrand Russell e l’allora primo ministro francese Pierre Mendes France che gli raccontò come era riuscito, tra tante difficoltà, a metter fine alla guerra in Algeria che stava dissanguando la Francia e della quale non sembrava ci fosse alcuno sbocco.

Negli anni della vecchiaia

Viveva alternando periodi di residenza presso Torino ed altri a Pantelleria, con la soddisfazione di aver imparato a produrre personalmente ottima uva e ottimo olio

Raccontò della sua attività di partigiano nel libro:

Mani in alto, bitte: memorie di Ico, partigiano, ebreo / Enrico Loewenthal a cura di Maria Stefania Bruno. Prefazione di Stefano Vastano; postfazione di Elena Loewenthal. – Arezzo Ed.: Zona, 2015. – 222 p. 16,15 €

Lo rese particolarmente orgoglioso la decisione di un editore tedesco di pubblicare per un pubblico tedesco le sue memorie di partigiano italiano:

Hände hoch, bitte: Erinnerungen des Partisanen Ico / Enrico Loewenthal; aus dem Italienischen übersetzt und bearbeitet von Gisela und Siegfried Buck . – Berlin : Hentrich & Hentrich, 2014. – 208 p. 22,00 €

 

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