Intervista a cura di Bruna Laudi

In questi giorni tutti noi viviamo grande preoccupazione per quanto succede in Israele. Ma alcuni di noi sono particolarmente angosciati, perché in Israele hanno scelto di vivere i loro figli e sono nati i loro nipoti.
Abbiamo pensato di intervistare una delle madri torinesi che vivono questa esperienza, per esprimere la nostra solidarietà e dare voce al loro dolore. La scelta è caduta su Franca Mortara, moglie di Ferruccio Nizza e madre di Micol e Jael, entrambe residenti all’estero: Micol in Israele, a Gerusalemme, e Jael in Gran Bretagna.

Il 7 ottobre, giorno dell’attacco ad alcuni Kibbutzim del sud di Israele da parte di Hamas, si è spezzato qualcosa per tutti noi: voi come avete saputo quello che stava succedendo?

Sabato 7 ottobre non sono potuta andare, come al solito, al tempio per le funzioni di shabbat e, verso l’ora di pranzo, ho acceso la radio. Sono rimasta colpita dalla voce concitata di un giornalista che parlava di una terribile incursione in alcuni Kibbutz in territorio israeliano da parte di militanti di Hamas.Molteplici sono stati i miei stati d’animo: stupore, sgomento, incredulità. il mio pensiero è corso a Gerusalemme, che in quel momento era sotto tiro dei razzi, ma ho avuto un unico pensiero di sollievo pensando che Micol, Tomer e i bambini non erano totalmente soli nell’affrontare questa tragica esperienza. Infatti, con loro c’era anche l’altra mia figlia, Jael, che, come talvolta accade durante la festa di Succot, trascorre alcuni giorni con i nipotini che sono a casa da scuola. Quando è tornato a casa Ferruccio dal Tempio, dove era stato informato da alcuni correligionari, abbiamo chiamato al telefono i ragazzi. Dall’altra parte del filo ha risposto Micol, con una voce apparentemente pacata, che ci ha comunicato che avevano trascorso la prima mattina nella camera sicura, in ebraico “mamad” perché c’erano stati diversi “uiu-uiu”(termine che mio nipote Lavy utilizza per chiamare le sirene) e che con esattezza non avevano notizie più dettagliate degli avvenimenti. Il mamad è una piccola stanza di sicurezza rinforzata, pensata per offrire protezione contro proiettili ad alto impatto e armi chimiche ed è costruita seguendo rigorose indicazioni.

Quale è stata la tua reazione?

Dopo un primo momento di grande angoscia è subentrato in me un profondo senso di impotenza e di frustrazione. Infatti, vista la lontananza, non potevo svolgere il mio ruolo di madre e nonna: essere un punto di riferimento affettivo, psicologico e materiale, talvolta un po’ ingombrante, come nella tradizione delle madri di Israel. Ero frustrata, mi sentivo quasi tradita dalla deriva del governo israeliano, ripiegato su se stesso, sordo di fronte alle ripetute proteste di molti cittadini, tra cui Micol e suo marito Tomer, che volevano difendere quei principi di libertà e di democrazia che erano alla base della Legge fondativa del’48 e che hanno da sempre caratterizzato lo Stato di Israele.

Da quanti anni Micol vive in Israele? Quando ha cominciato a esprimere il desiderio di fare l’aliyah? Voi come avete reagito?

Dal 2004 al 2006 è andata per un periodo per completare gli studi di arabo e nel 2010 si è trasferita definitivamente, spinta dagli ideali che aveva imparato a conoscere frequentando l’Hashomer Hatzair: un movimento giovanile che nacque nel 1913 in Galizia e che ora è diffuso in tutto il mondo. Si basa su tre pilastri ideologici che sono lo scoutismo, il sionismo e il socialismo.
Micol continua a impegnarsi per quei principi che l’hanno sostenuta e le hanno permesso di lasciare, con minor fatica, la sua famiglia: è partita spinta da ideali che ha cominciato a coltivare dall’età di dieci anni e che l’hanno accompagnata per tutta l’adolescenza. Noi genitori abbiamo accettato, anche se con una buona dose di ansia unita però al compiacimento, la sua scelta, perché era, in qualche modo, il frutto della nostra educazione familiare.

So che Micol ha studiato arabo all’Università, quali erano i suoi sogni?

A questo punto Franca mi suggerisce di parlare direttamente con Micol, cosa che ho fatto prontamente con una telefonata a Gerusalemme.

Micol: sono fermamente convinta che la convivenza si basi sul dialogo e sia quindi fondamentale conoscere la lingua del tuo vicino. Avendo deciso di trasferirmi in Israele ero convinta che la conoscenza dell’arabo avrebbe favorito uno scambio reciproco.

Sei riuscita a mettere in pratica questo sogno?

Micol: purtroppo, solo parzialmente. Per imparare meglio la lingua ho anche fatto un periodo di volontariato nell’ospedale scozzese di Nazareth dove il personale era locale: dicevo a tutti gli operatori di parlarmi esclusivamente in arabo e loro erano molto contenti. Però, finita questa esperienza, mi è capitato sempre più raramente di parlare l’arabo, se non occasionalmente nel mio lavoro di guida turistica o nei contatti con artigiani locali. In queste occasioni i miei interlocutori apprezzavano che io ci provassi.
Gli studenti israeliani teoricamente studiano l’arabo per qualche anno ma non lo praticano: secondo me sarebbe invece fondamentale coltivare spazi di dialogo.

Come vedi la situazione nell’immediato futuro?

Il silenzio di Micol è eloquente.

Riprendo la conversazione con Franca.

Micol è sposata e ha due bimbi: come è cambiata la loro vita da quando è scoppiata la guerra?

Micol e Tomer hanno cercato di proteggere i bambini, cercando di mantenere una certa ritualità nella loro vita e spiegando perché non si andava a scuola, non si poteva uscire, non si potevano incontrare i nonni e gli amici.

I bambini capiscono quello che sta succedendo? Esprimono delle angosce?

Lior, avendo sette anni, è più consapevole di questo momento di emergenza, anche perché ora si confronta con i compagni e con la realtà del territorio. I genitori hanno avuto dei momenti di confronto con gli altri genitori, con gli educatori e con specialisti per cercare di adottare strategie educative simili. Lavy, che ha quasi quattro anni, ha interiorizzato perfettamente la necessità di trovare un luogo di rifugio quando suonano le sirene, tanto che con un suo amichetto giocava a nascondere i pupazzi in luogo sicuro.

C’è qualcosa che dà sollievo a te e a Ferruccio in questi giorni gravi? Condividere la vostra apprensione con tanti ebrei torinesi che vivono situazioni analoghe vi è d’aiuto? Oppure si tende a chiudersi nel proprio dolore per cercare di esorcizzarlo?

Con gli altri genitori che hanno i figli in Israele c’è un confronto continuo ma, in realtà, non so quanto sia rilevante il sostegno reciproco. Soffriamo tutti di una dipendenza patologica dalle fonti di informazione italiane (tg, quotidiani…) ed israeliane (Haaretz, I-24; …).

Sei una donna estremamente pratica: tutti ti riconoscono il grande impegno che in questi anni hai profuso in vari ambiti, dall’ADEI alla scuola: cosa è cambiato nel tuo impegno nell’ultimo mese?

La mia vita di tutti i giorni non è cambiata: cerco di proseguire nei miei impegni comunitari e di volontariato. L’impegno nei confronti della scuola ebraica è certamente aumentato, perché ritengo importante essere più presente per interagire con tutte le componenti: genitori, docenti, Direzione. Una parola o una frase, dette di persona, consolidano i rapporti, aiutano a stemperare i momenti di ansia, ad aiutare a risolvere quei piccoli problemi organizzativi che potrebbero porre degli interrogativi sulla frequenza scolastica in una scuola ebraica, in questo periodo.

Provieni da una consolidata tradizione famigliare di attenzione alle persone fragili e tutta la tua vita professionale (insegnante di sostegno) è stata orientata all’accoglienza: questa tragedia mette in qualche modo in discussione la tua volontà di essere solidale nei confronti di chiunque? Ti sembra che sia cambiato qualcosa in questo mese nelle relazioni con il mondo non ebraico?

Ritengo fondamentale l’impegno e l’interazione con il mondo esterno, perché è importante parlare con chi ti circonda, con chi non è realmente a conoscenza della situazione arabo-israeliana ed è portato a darsi spiegazione istintive, spesso influenzate dalle immagini e dai resoconti dei giornalisti. In questo periodo presto particolare attenzione ai miei interlocutori per cercare di mantenere buoni rapporti, ma nello stesso tempo di esprimere con fermezza le mie posizioni. Non è sempre facile, ma è l’unico modo di aiutare ideologicamente Israele, visto che la “comunicazione” non è una delle prerogative principali dello Stato di Israele.

Per concludere: cosa significa per te essere ebrea?

Adeguare la mia vita ai principi sociali, morali e umani dell’ebraismo.

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