di Alessandro Treves

Com’è potuto succedere? Si sono chiesti lunedì 16 giugno gli abitanti della città di Bnei Brak, il sobborgo nordorientale di Tel Aviv dove sono concentrati oltre duecentomila ebrei ultraortodossi, il 90% dei suoi abitanti. Quella notte era caduto un missile iraniano, distruggendo una scuola femminile e uccidendo una persona. Nonostante l’altissima densità, ora la più alta in Israele (si pensi che Bnei Brak non arrivava a mille abitanti ancora nel 1931, né a diecimila nel 1948) si credeva che le preghiere e lo studio della Torà avrebbero protetto i residenti, come aveva garantito il fu Rav Chaim Kanievsky durante la guerra del Golfo, e prima di lui già suo zio, AY Karelitz, noto come il Chazon Ish.

Probabilmente il morto è uno straniero, uno dei lavoratori edili venuti dall’India, o dallo Sri Lanka, hanno pensato in molti: l’assicurazione contratta con l’Altissimo e garantita da Rav Kanievsky non copriva i goyim. Invece no, quello ucciso dal missile era proprio un ebreo ultraortodosso, di 84 anni. Forse è perché Rav Kanievsky ci ha lasciato nel 2022, ci si è allora chiesti, e l’assicurazione non è più valida, andava rinnovata?

La questione non è soltanto folcloristica, in un momento in cui Israele è impegnato in due guerre apocalittiche, condotte dal governo che gli haredim sostengono, e cui però contribuiscono molto poco, quasi solo con le preghiere. Può essere considerata guerra “santa”, una dove si mandano altri a combattere e morire al nostro posto? Certo, l’attacco all’Iran è cominciato di venerdì, il giorno di riposo, ma degli islamici; e comunque per salvare delle vite si può combattere e uccidere anche di sabato, come naturalmente è avvenuto, e come avviene ormai dal 7 Ottobre a Gaza. Ma può la salvaguardia della vita, il pikuach nefesh, dare la priorità non solo ai propri connazionali, ma fra i connazionali a quelli del proprio gruppo etnico (per i quali si costruiscono rifugi, per gli altri no) e fra costoro a chi, più o meno pio, per l’appartenenza ad un sottogruppo religioso è esentato dal rischiare la vita nell’esercito? Si può interpretare la shmirat Shabbath come shmirat shevet, la salvaguardia della vita e degli interessi della propria tribù, o setta?

Shabbath e shevet, una vicinanza, se non fosse per quella tav aspirata, che può addolcire l’immagine aggressiva di chi manda altri ad uccidere e morire, se è vero che comunque si tratta dei discendenti delle dodici tribù, che hanno regalato al mondo il giorno del riposo. La tribù dei timorati di D-o, che lascia fare la guerra agli altri, ha donato a tutti la pace del Sabato.

Eccetto che, probabilmente, non è vero. Il giorno del riposo non è stato donato al mondo dai figli d’Israele (né, tantomeno, da quelli d’Ismaele).
Ce lo suggerisce duemila anni fa Filone, ebreo ellenizzato di Alessandria, quando osserva, nel suo Decalogo, che mentre altri popoli celebrano lo Shabbath una volta al mese, secondo il calendario lunare, Israele non smette di celebrarlo ogni settimana. Ma quali sarebbero, questi sabati mensili dei Gentili? Alcuni hanno pensato si riferisse a ricorrenze del calendario greco, nella cui cultura egli era immerso, e ne hanno sottolineato le differenze col giorno del riposo. Solo a metà Ottocento, col ritrovamento e poi la traduzione delle tavolette dell’Enuma Elish, fra le rovine della biblioteca del re assiro Assurbanipal, a Ninive, si è cominciato a delineare un quadro più chiaro. L’Enuma Elish è un poema epico o mito della creazione probabilmente risalente alla fine del secondo millennio aEV, e in esso si parla dello shabattu come del giorno “di riposo del cuore”. Ne è protagonista Marduk, ormai prominente nel pantheon mesopotamico, che esorta il dio della luna Nanna:

“scintilla sulla terra all’inizio del mese (arḫu; come in ebraico yareach),
splendente con i [tuoi due] corni per 6 giorni.
Il settimo giorno (sebutu; forse come l’ebraico shevi‘ì) la corona sarà a metà,
Il quindicesimo (shabattu), a metà del mese, gli starai opposto [al sole] (cioè il plenilunio)”.

Queste tre giornate speciali del mese lunare sono compatibili con quello che si è poi trovato in altre narrazioni, come l’Epica di Atraḫasis , risalente forse al 18° secolo aEV, e ancora più indietro, nel periodo di Sargon, nel terzo millennio aEV. A un certo punto e in certi contesti viene codificata, secondo le deduzioni dell’assiriologo inglese Theophilus G. Pinches (1856 – 1934) una suddivisione del mese lunare in 4 settimane, di cui l’ultima con uno o due giorni in più per arrivare alla luna nuova; e un giorno “nefasto” al termine di ogni settimana, distinto dallo shabattu, termine che le poche volte che compare pare riferirsi univocamente al plenilunio (e o coincidere o essere immediatamente successivo al giorno nefasto della seconda settimana). L’ipotesi che lo Shabbat giudaico possa essere una specie di scopiazzatura – nata dall’appiccicare il nome e la connotazione del plenilunio, come giornata di cessazione dal lavoro, al settimo giorno di un irrigidito ciclo settimanale, svincolato dalla luna – ha naturalmente irritato molti studiosi, soprattutto se in disaccordo con le loro convinzioni religiose. Le critiche però non sono molto convincenti[1] e spesso, partendo dall’assunto che Mosè sia l’autore della Torà, non hanno considerato le molte trasformazioni che possono aver modificato queste ricorrenze dall’uscita dall’Egitto fino alla riforma di Giosia e poi all’esilio di Babilonia. L’epoca in cui secondo i più conservatori fra gli esegeti moderni comincia a delinearsi la redazione del Tanach, e anche quella, circa il 630 aEV, cui risalirebbe un ostrakon che riporta – forse – la prima menzione extra-biblica dello Shabbath.

Quello che rende più interessante l’ipotesi di Pinches sul carattere del Settimo Giorno nella cultura sumero-babilonese non è però la questione se sia stato mal copiato e ribattezzato col nome del plenilunio dai semiti occidentali. È la sua natura ecumenicamente politeistica. Secondo Pinches, ciascuno dei quattro fine settimana del mese lunare venivano offerti sacrifici, forse dopo il tramonto, alla fine del giorno nefasto, ad una coppia diversa di dèi e dèe: Marduk e Ishtar il primo, Ninlil e Nergal il secondo, Nanna-Sin e Shamash il terzo ed Enki-Ea e Mah-Mangha l’ultimo fine settimana. Poiché ciascuno di loro era associato ad una diversa città (nell’ordine: Babilonia e Uruk; Nippur e Kutha; Ur e Larsa; Eridu e forse l’Iran? per Mah lo schema di Pinches non è chiaro) il calendario non promuoveva l’emergere di un centro egemone – anche quando questo si era imposto a livello politico. Così Marduk, originariamente deuzzo semi-sconosciuto del piccolo villaggio che era Babilonia, all’affermarsi della città venne incorporato più o meno amichevolmente nella precedente famiglia di dèi sumero-accadica, pur fra qualche incesto e nonnicidio, e gli vennero trovate delle parentele che lo facessero sentire a casa e in empatia con una realtà culturale raffinata e articolata.

Tutt’altra cosa rispetto agli acrimoniosi dèi etnici che sarebbero presto emersi altrove e che, non a caso, fanno rima con Ustascia e Cetnici.

Trieste e Tel Aviv, 19 giugno 2025

[1] un testo che esprime un’opinione equilibrata è questo di Jacob L Wright: https://www.thetorah.com/article/how-and-when-the-seventh-day-became-shabbat

 

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