​di Moshé B.

Dopo oltre cinque mesi di combattimenti gli unici ostaggi israeliani che sono stati liberati lo sono stati grazie alla breve tregua di novembre tra I​sraele e Hamas e a uno scambio di prigionieri che sarebbe stato possibile forse anche senza muovere un carro armato dell’IDF. Centotrentadue ostaggi sui duecentoquaranta iniziali sono ancora in prigionia a Gaza, la loro condizione e il loro destino incerto e, a parte le manifestazioni e le proteste di piazza delle loro famiglie, sembra che questa non sia affatto la priorità del governo Netanyahu.

Dodici ministri dell’attuale governo – compresi quelli del Likud – hanno invece partecipato a gennaio a un’affollata conferenza a Gerusalemme per la ri-colonizzazione ebraica di Gaza. “Dobbiamo incoraggiare l’emigrazione volontaria dei palestinesi di Gaza – ha affermato, il ministro Itamar Ben Gvir fra gli applausi della platea – che se ne vadano da qua”.

Gran parte dei leader di Hamas sembrano essere, al contrario degli ostaggi israeliani e dei gazawi, ancora vivi e in salute nelle loro case lussuose in Libano o in Qatar. Se lo scopo di questa guerra era l’eradicazione completa di Hamas nonché la prevenzione di stragi come quella del 7 ottobre, sembrerebbe uno scopo fallito perché secondo i sondaggi Hamas è sempre più popolare in Cisgiordania e, probabilmente, si rafforzerà anche a Gaza in mezzo a coloro che hanno perso un familiare o un proprio caro durante i bombardamenti e negli scontri a fuoco. Qui ci sono oltre ventottomila vittime di cui in gran parte bambini, un numero altissimo di giornalisti uccisi, scarsità di cibo e di medicine, la totale distruzione delle scuole, degli ospedali e delle città che porta con sé anche un alto rischio epidemico.

Alcuni sostengono che tutto ciò avviene per esclusiva responsabilità di Hamas “il quale si nasconde tra i civili e posiziona le proprie postazioni militari all’interno di luoghi pubblici”. Questa interpretazione non può però spiegare la potenza distruttiva di questa guerra che non ha eguali rispetto alle precedenti nell’area ed è superiore ad altri conflitti del secolo, – come ha descritto Washington Post in un articolo ben documentato “Israel has waged one of this century’s most destructive wars in Gaza” -, la trappola letale senza vie di fuga che è diventata la Striscia di Gaza, e tanto meno i molti filmati “goliardici”, derisori e disumanizzanti che dal fronte vengono diffusi giorno per giorno su canali social, simbolo di una società sempre più spettacolarizzata e “instagramabile” ma che non sono molto in linea con quello che dovrebbe essere “l’esercito più morale del mondo”.

La situazione di soprusi e violenze in Cisgiordania da parte di coloni supportati dalle forze dell’IDF è, se possibile, ancora più tragica e deleteria. Ed in questo clima bellicista non manca persino lo stesso presidente Isaac Herzog che si fa fotografare mentre scrive a pennarello sui missili che verranno lanciati sopra Gaza. Tanto che sembra che persino l’hasbarà, generalmente molto puntuale nel confutare la veridicità di queste immagini, faccia adesso sempre più fatica a operare.

Non riuscendo a “correggere” ciò che arriva dal Vicino Oriente, le operazioni di propaganda mirano invece a fare pressione per silenziare inutilmente nella sfera pubblica qualunque richiamo sulla situazione a Gaza con l’accusa di mandare messaggi “irrispettosi verso gli ebrei” – si veda p.e. l’ultima polemica sorta con il Festival di Sanremo -. Creando però un effetto ancora più pericoloso e controproducente, il quale rischia di far passare nell’ignoranza generale l’idea che una qualche “lobby sionista-ebraica” influenzi i mass-media.

Se in Europa per i gruppi di supporto a Israele i mass-media e i servizi giornalistici sarebbero quindi manovrati da una sorta di “cospirazione anti-israeliana e quindi anti-ebraica” – stessa accusa che viene rivolta in maniera opposta dai gruppi pro-palestinesi—, in Israele, al contrario, ad esclusione dei giornali “nemici della nazione” come Haaretz o +972, la popolazione è tenuta in gran parte all’oscuro di ciò che accade dall’altra parte, i servizi televisivi e radiofonici sono esclusivamente incentrati sulla ricostruzione dei kibbutzim, sulle testimonianze sul 7 ottobre, sul coraggio dei soldati, sull’unità nazionale e quindi sull’inutilità di dividersi tra “destra e sinistra”. Autobus e palazzi sono tappezzati da bandiere e manifesti con scritto “Insieme vinceremo”, chi si oppone a questa retorica è considerato un “traditore”, un “odiatore di sé”, se non persino un “nazista”. Le proteste spontanee contro la guerra per le vie di Tel Aviv  vengono dopo pochi minuti represse dalla polizia, i manifestanti allontanati o portati in caserma, i ragazzi che si rifiutano di fare il servizio militare messi in galera e ostracizzati, ci sono poi casi di insegnanti che sono stati minacciati dagli studenti e poi richiamati dalle istituzioni per aver scritto sul proprio profilo Facebook “messaggi di solidarietà verso Gaza”, come è accaduto a un professore di un liceo di Tel Aviv. Una situazione non troppo diversa da ciò che accade in Russia o in Turchia verso le voci che si sono opposte all’invasione dell’Ucraina o in solidarietà alla popolazione curda. 

Forse anche chi da detrattore o da estimatore considera Israele un paese “bianco” e “avanguardia degli illuminati valori europei”, dovrebbe riflettere che il clima in Francia post-Nizza e post-Bataclan o quello negli Stati Uniti post-11 settembre non aveva assunto gli stessi toni militaristici e di promozione di un’unità così tossica e totalizzante. 

Su Haaretz, il Dr. Yair Ben David, docente specializzato in psicologia della moralità, spiega la cecità di parte degli israeliani di fronte a Gaza come “ignoranza intenzionale” o “effetto struzzo”, la nostra scelta di evitare di prendere in considerazione informazioni, anche quando sono facilmente disponibili. Ben David spiega che “Spesso scegliamo l’ignoranza intenzionale dei dati che contraddicono le nostre opinioni, o delle informazioni che potrebbero minare la nostra immagine di sé e dimostrarci che non siamo così buoni e di successo come tendiamo a credere. […] Molti di coloro che esaminano e giudicano il conflitto israelo-palestinese ne ignorano elementi significativi, in parte per sentirsi più in sintonia con il loro “sé morale” nei confronti degli eventi. Lo fanno al fine di preservare un’identità morale semplice in un mondo la cui moralità è in realtà molto complessa.”

Da ciò emerge che gli israeliani e il resto del mondo stanno vivendo in due dimensioni completamente diverse, stanno guardando un quadro da due posizioni opposte, gli israeliani vedono come un fulmine a ciel sereno solo la tragedia del 7 ottobre, mentre il resto del mondo, per quanto almeno la parte sana abbia compreso la devastazione di questa data, vede anche tutto ciò che l’ha preceduta e ciò che ne è seguito, e quindi la distruzione quasi totale della Striscia di Gaza e le sue vittime. Come ha affermato la giornalista e attivista Anat Saragusti in un’intervista sempre su Haaretz “Se non vediamo quello che il mondo sta vedendo, non saremo in grado di capire il crescente sentimento di avversione nei nostri confronti [riferendosi a Israele]”.

Più difficile forse spiegare questa sorta di “ignoranza intenzionale” in una parte della diaspora ebraica anche di idee tradizionalmente progressiste, che per quanto abbia condiviso pur da lontano gli stessi traumi del 7 ottobre, finisce ugualmente per spegnere il proprio pensiero critico, lasciandosi abbindolare dalla propaganda, dalla negazione e revisione dei fatti (considerati pur sempre creati ad hoc e manomessi dalla propaganda opposta).

A un’ottica universalista e umanista che è sempre stata parte di una cultura ebraica almeno laica e secolare, viene sostituita una prospettiva particolarista, nazionale (-ista), e soprattutto tribale, in cui non può trovare spazio il dolore dell’altro, in cui ha importanza soltanto il nostro dolore, il nostro sentire, le nostre vittime, quelle altrui sono di minore valore o in qualche modo di serie B, giustificate dalla nostra sofferenza. 

Il mondo viene percepito come un luogo pericoloso e ostile dominato dal pur reale antisemitismo, nel quale ogni critica alla condotta militare di uno stato altro, Israele, è soltanto un attacco esplicito nei nostri confronti. Contemporaneamente al governo israeliano poco interessa di quello che accade al di fuori, di come viene giudicato, e anche della stessa diaspora ebraica che in parte cerca con grande difficoltà di prenderne le difese.

Qualunque guerra che l’umanità ha intrapreso sino ai giorni nostri è stata in qualche modo giustificata da chi l’ha condotta come prettamente esistenziale e di “autodifesa”, di “sopravvivenza”, proiettata a rimuovere una minaccia esterna e quindi a raggiungere una fantomatica “sicurezza”. Ognuno cercherà di vederla come “giusta” e “inevitabile”, per esempio i serbi e i croati nelle sanguinose guerre balcaniche non pensavano affatto di agire per “crudeltà” ma per difendere i propri interessi nazionali e quindi le proprie popolazioni di fronte a un mondo “a loro ostile” che non era capace di comprendere le loro ragioni.

Le vittime civili diventano sempre un effetto collaterale non attribuibile alla condotta dello stato per il quale si parteggia, del resto se queste non si sono visibilmente opposte al loro tiranno, sono in qualche modo conniventi con esso – in realtà a Gaza il sostegno verso Hamas era prima del 7 ottobre inferiore al 50% – e quindi meno meritorie di restare in vita. L’attribuire in modo inequivocabile all’altro il nome di “terrorista” o di “potenziale terrorista” è comunque un tentativo di disumanizzarlo, di renderlo meno vittima, e anche qualora a Gaza fossero tutti, persino i bambini, miliziani e terroristi, la nostra civiltà dovrebbe aver raggiunto un livello tale da sostenere che la condanna a morte o la distruzione totale di un territorio perché “abitato da terroristi o da criminali” non può essere una soluzione praticabile. Non di meno gli eserciti della Russia di Eltsin e poi di Putin, hanno legittimato l’aver raso al suolo Grozny negli anni ‘90 per le stesse ragioni.

Come la si voglia vedere, da quale prospettiva, la guerra resta pur sempre una schifezza, sia per chi la subisce ma anche per chi la conduce, porta con sé infinite schifezze, e nessun principio morale vi troverà mai spazio. Qualcuno vi troverà luogo adatto per dare sfogo alla propria violenza o al proprio risentimento, qualcuno vi perderà una casa, un familiare, un arto, svilupperà in seguito un trauma – anche tra i soldati israeliani quando torneranno dalle proprie famiglie -, una malattia, un desiderio di odio e vendetta verso l’altro. Ogni guerra porta con sé i germi di ulteriori traumi e della guerra successiva che scoppierà a breve.

11 Febbraio 2024

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