di David Calef

La morte di Shireen Abu Akleh

L’11 maggio scorso, Shireen Abu Akleh, giornalista della rete televisiva Al Jazeera, è stata uccisa a Jenin nel nord della Cisgiordania.

Abu Akleh, doppia nazionalità americana e palestinese, era molto nota nel mondo arabo per i suoi reportage dai Territori Occupati.

Al momento della morte Abu Akleh indossava un giubbotto blu e un elmetto dove la scritta PRESS era ben visibile. La giornalista è stata colpita alla nuca da un proiettile che si è infilato tra il giubbotto antiproiettile e l’elmetto.

Subito dopo la diffusione della notizia della morte, funzionari del governo israeliano hanno sostenuto senza alcuna prova che la pallottola che aveva ucciso la giornalista era stata sparata da militanti palestinesi che stavano contrattaccando l’incursione israliana. Nei giorni seguenti, video e foto hanno mostrato al contrario che i militanti palestinesi presenti nel quartiere di Jenin erano separati dai giornalisti di Al Jazeera da un muro e si trovavano una distanza di almeno 300 metri mentre l’analisi acustica degli spari indica che chi ha ucciso Abu Akleh non si trovava a più di 200 metri, che è proprio la distanza che separava Abu Akleh e i suoi colleghi da un convoglio israeliano. Dall’inchiesta pubblicata sul New York Times risulta che sono stati sparati 16 colpi tutti dalla postazione dell’unità speciale dell’esercito israeliano Duvdevan e che nessun palestinese si trovava nei pressi della sparatoria.

Due giorni dopo la morte, la famiglia ha celebrato i funerali a Gerusalemme Est. Ma le esequie non si sono svolte in un clima emotivo consono all’occasione. Decine di poliziotti israeliani in tenuta antisommossa hanno aggredito con manganelli coloro che portavano la bara colpendoli ripetutamente fino a far quasi cadere la bara a terra. I poliziotti non hanno ritenuto tollerabile che i partecipanti esibissero bandiere palestinesi. L’assalto al corteo funebre ripreso dalle telecamere è stato l’ennesimo messaggio di Israele alla società palestinese. Non solo non rispettiamo il vostro dolore ma se provate a rivendicare la vostra identità nazionale in pubblico useremo la violenza per impedirvelo.

Sono passati oltre due mesi dalla morte di Abu Akleh e il numero di articoli pubblicati sulla tragedia è incalcolabile. Eppure la fine della cronista sarebbe probabilmente stata destinata all’oblio se non fosse per un dato anagrafico: Abu Akleh era cittadina americana. Ciò ha spinto diversi mezzi d’informazione americani e internazionali di primo piano a condurre delle lunghe ed elaborate inchieste per capire chi avesse ucciso la giornalista.

Ha iniziato l’agenzia di stampa Associated Press che il 24 maggio ha pubblicato i risultati della sua inchiesta concludendo che era molto probabile che i soldati israeliani avessero sparato la pallottola mortale.

In seguito, altre testate giornalistiche, il Washington Post, il New York Times, la CNN e Bellingcat (un gruppo di giornalismo investigativo) hanno condotto altre inchieste indipendenti. Tutte – sulla scorta di analisi dei video delle foto e dopo aver intervistato i testimoni – hanno raggiunto la stessa conclusione: la pallottola che ha ucciso Abu Akleh è stata sparata da un soldato israeliano.

Il 24 giugno anche l’Ufficio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite è arrivato alla stessa conclusione. Da ultimo è intervenuto lo United States Security Coordinator (USSC), l’organismo americano che coordina iniziative del Governo d’Israele e dell’Autorità Palestinese per migliorarne la cooperazione su questioni di sicurezza. L’USSC ha concluso che una pallottola proveniente dalle posizioni dell’esercito israeliano è “molto probabilmente” responsabile della morte di Abu Akleh.

Non è la prima volta che l’esercito israeliano uccide un giornalista in Cisgiordania o a Gaza. Negli ultimi 30 anni decine di giornalisti sono stati uccisi dagli israeliani compresi due italiani: Simone Camilli e Raffaele Ciriello. Nessun militare israeliano è stato mai ritenuto responsabile di queste morti.

Anche se il soldato che ha ucciso Abu Akleh venisse identificato, la probabilità che sia chiamato a rispondere delle proprie responsabilità è quasi nulla. L’esercito israeliano evita di mandare a processo i propri soldati e quando un soldato di Tzahal viene processato se la cava nella peggiore delle ipotesi con un buffetto. Nel 2016, a Hebron, il sergente Elor Azaria uccise con un colpo alla testa Abdul Fatah al-Sharif a sangue freddo. Al-Sharif – che aveva tentato di accoltellare un soldato israeliano – era a terra immobile, ferito gravemente e incapace di nuocere. Eppure, davanti alle telecamere, Azaria gli ha sparato un colpo alla testa. Il sergente venne condannato a un anno e mezzo di reclusione e poi rilasciato dopo soli nove mesi per buona condotta diventando un eroe per la destra nazionalista secondo cui evidentemente uccidere un palestinese inerme non è reato.

Non sono stati solo i media americani a cercare di identificare i responsabili della morte della cronista di Al Jazeera. Lo hanno fatto anche molti politici americani. Abu Akleh era americana e risiedeva nello stato del New Jersey. A più riprese, nei mesi di maggio e di giugno, decine di senatori e deputati del Congresso hanno chiesto al Dipartimento di Stato e al Federal Bureau of Investigation di aprire un’inchiesta per fare luce sulla morte della giornalista. Il 12 luglio, il giorno prima della recente visita di Joe Biden in Israele, i due senatori del New Jersey Robert Menendez e Cory A. Booker – notoriamente falchi pro-Israele – hanno mandato una lettera aperta al presidente americano chiedendo all’amministrazione di condividere tutte le informazioni riservate incluse nelle inchieste dell’esercito israeliano e dell’Autorità Palestinese, comprese le analisi della polizia scientifica, quelle balistiche, etc., stigmatizzando il comportamento della polizia israeliana che aveva attaccato il corteo funebre.

Nello stesso giorno, quattro senatori del partito democratico (come tutti quelli che li hanno preceduti) hanno indirizzato al segretario di stato Anthony Blinken dieci domande sull’investigazione condotta dal USSC inclusa la seguente: quali sono le prove specifiche che hanno indotto l’USCC a concludere “che non c’è motivo di credere che [la morte] sia stata intenzionale, ma piuttosto il risultato di circostanze tragiche”.

Questa e altre domande insieme a tutte le lettere inviate alle maggiori istituzioni statunitensi testimoniano della determinazione esistente a identificare i responsabili della morte di Abu Akleh. Ma sappiamo che queste lettere sono state inviate invano. L’amministrazione Biden non raccoglierà l’invito ad andare al fondo alla questione. Durante la visita in Israele Biden ha pronunciato il nome di Abu Akleh storpiandolo malamente e ha detto poche parole di circostanza sulla giornalista e sul conflitto senza fare alcuna richiesta diretta al nuovo primo ministro Yair Lapid. Del resto la seconda tappa della visita di Biden in Medio Oriente è stata a Gedda in Arabia Saudita. Biden si è recato nella penisola araba per incontrare il principe Mohammed bin Salman, mandante dell’assassinio del giornalista americano Jamal Kashoggi fatto a pezzi da sicari sauditi nel consolato di Istanbul nel 2018. È insensato mettere a confronto l’Arabia Saudita e Israele, meno che meno sul piano delle circostanze della morte di Abu Akleh e di Kashoggi, ma è difficile non notare che entrambi i paesi possono permettersi di uccidere giornalisti americani senza scontarne le conseguenze.

Bisogna prendere atto che gli Stati Uniti non faranno pressione su Israele né per scoprire chi ha ucciso Abu Akleh né tanto meno per restituire almeno in parte le terre occupate oltre la Linea Verde e permettere la costituzione di uno stato palestinese.

La morte di Abu Akleh è purtroppo solo un episodio di una vicenda tragica per milioni di palestinesi che subiscono da oltre 50 anni l’occupazione israeliana. Quest’ultima continua con il carico quotidiano di sopraffazioni, demolizioni di case, espulsioni di centinaia di abitanti dai loro villaggi (ad esempio Masafer Yatta a pochi km a sud di Hebron).

Esistono tra Tel Aviv e Gerusalemme rare voci (B’Tselem, Yesh Din, Shovrim Shtika, Shalom Achshav,…) che non si riconoscono nell’immagine di Israele come faro della democrazia in Medio Oriente. Perché riconoscono che al di là della Linea Verde, la democrazia vale solo per gli ebrei e non per i palestinesi, arabi o cristiani che siano (Abu Akleh era cristiana). Ma sono troppo poche e sopraffatte dall’indifferenza che prevale un po’ dappertutto, in Israele, in primis, ma anche in Europa, negli Stati Uniti… La morte di Abu Akleh ce lo ha ricordato una volta di più.

 

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