Intervista a Sergio Della Pergola

 a cura di Bruna Laudi e David Terracini

Sergio Della Pergola è considerato il massimo esperto di demografia d’Israele e della diaspora. Laureato in scienze politiche a Pavia, dal 1966 vive e lavora in Israele. Professore ordinario emerito ed ex direttore dell’Istituto Avraham Harman di studi ebraici contemporanei all’Università di Gerusalemme.  Ha pubblicato molti libri ed articoli sulla storia, le migrazioni, l’identità del popolo ebraico ed ha tenuto conferenze e lezioni in oltre 100 università di tutti i continenti. Consulente del Presidente dello Stato d’Israele, del Governo, del Municipio di Gerusalemme, dell’istituto centrale di Statistica di Israele e di diverse organizzazioni nazionali ed internazionali. Membro della Commissione di Yad Vashem per il riconoscimento dei Giusti tra le Nazioni.
La Redazione di Ha Keillah gli ha posto alcuni quesiti sulla situazione in Israele oggi e sulle prospettive future: ha risposto il 13 settembre, in una conversazione video di un’ora e mezzo, che qui sintetizziamo per ragioni di spazio.

Sergio, che ha letto le domande della redazione, è molto colpito dall’aver assistito in diretta tv alla prima seduta della Corte Suprema di Israele per discutere i ricorsi contro la legge proposta dal Governo Netanyahu per la abolizione della facoltà della Corte stessa di abrogare leggi in contrasto col principio di “Ragionevolezza”. Sulla spinta dell’emozione ci racconta quanto ha visto e sentito.

Il 12 settembre 2023 c’è stata la prima seduta della Corte Suprema, che si è presentata al completo, quindici giudici, mentre per altri pronunciamenti meno importanti solitamente si riunisce con un numero inferiore di membri.
Il dibattimento è durato 13 ore, ed è stato trasmesso in diretta dalla televisione: la sentenza deve essere emanata entro tre mesi. La Consigliera giuridica del governo ha rifiutato di sostenere la proposta di legge governativa, perché la disapprova completamente, per cui il governo ha dovuto rivolgersi, per la sua difesa, ad un avvocato privato.
È molto grave il problema della soppressione del “principio di ragionevolezza” delle leggi, perché apre l’abisso della dipendenza politica del personale dell’amministrazione pubblica, non più scelto in base a principi di onestà e competenza professionale, ma di subordinazione all’autorità politica e al potere clientelare.
Nelle prossime settimane la Corte sarà chiamata a pronunciarsi su diverse proposte di legge, oltre a quella citata: una che prevede che la dichiarazione di incapacità a governare del Primo Ministro spetti soltanto a lui stesso, mentre dovrebbe essere compito di un organismo esterno.  Un’altra prevede la riforma delle nomine dei membri della Corte Suprema, che passerebbe a un comitato dove il Governo ha la maggioranza, calpestando il principio della indipendenza della Magistratura alla base di tutte le democrazie occidentali: inoltre si aspetta un pronunciamento sul rifiuto del Ministro della Giustizia Iariv Levin di riunire l’attuale Commissione per la nomina dei nuovi giudici.
Questi ed altri provvedimenti del Governo tendono a politicizzare il potere giudiziario e a mettere fine alla divisione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario che è alla base della democrazia israeliana e di tutte le democrazie occidentali. Tali tentativi hanno provocato le grandi, inaspettate, mature e responsabili manifestazioni di piazza che da mesi si ripetono in ogni città israeliana.  Grande preoccupazione suscitano anche le proposte del Governo di porre dei limiti ai poteri della Corte Suprema di annullare le leggi ritenute in contrasto coi princípi costituzionali. Oggi la Corte formula le sue sentenze giudicando la conformità delle nuove leggi ai principi fondanti dello Stato. In Israele non abbiamo una Costituzione, ma Leggi Fondamentali approvate dal Parlamento, ed abbiamo la Dichiarazione di Indipendenza letta da Ben Gurion il 14 maggio del 1948: esse affermano che lo Stato di Israele deve essere ebraico, democratico, senza alcuna discriminazione nei confronti delle minoranze. Sicuramente è molto allarmante quanto ha dichiarato l’avvocato nominato dal governo in sua difesa, e cioè che la Dichiarazione di Indipendenza sarebbe un documento raffazzonato e firmato da pochi personaggi non eletti: un’interpretazione falsa dei fatti e di enorme gravità perché sovverte la raison d’être del nostro Stato.

 Dopo le grandi manifestazioni di questi mesi, potrebbe cambiare l’atteggiamento del governo?

A livello internazionale, il Presidente americano Biden, che finalmente ha incontrato Netanyahu ai margini dell’Assemblea dell’ONU dopo oltre 9 mesi dalla nomina, ha espresso critiche alle riforme giudiziarie in corso.
I temi trattati in campagna elettorale, che hanno portato all’elezione di questo governo di destra, erano diversi: al centro vi erano il problema del caro vita e quello del terrorismo palestinese. È stato inaspettato il tentativo di sovvertire i fondamenti dello Stato, con la soppressione dell’indipendenza del potere giudiziario e con l’avvicinamento di Israele alle semi-democrazie di Polonia, Turchia e Ungheria.
Netanyahu, che ha già amministrato per 16 anni in due periodi successivi, che è in attesa di giudizio per diversi reati e che tiene soprattutto alla sua immagine ed al suo prestigio personale, ha già dichiarato che spera che la Corte Suprema non si esprima sui ricorsi finora presentati, perché altrimenti si arriverebbe su un terreno “sconosciuto”. Questa dichiarazione equivoca non rivela l’intento di Netanyahu di conformarsi o meno alle sentenze della Corte.  I ministri, per la maggior parte, e lo stesso presidente della Camera hanno già manifestato l’intento di non conformarsi alle sentenze della Corte. Una minoranza invece, come il Ministro alla Difesa, ha dichiarato l’intento di conformarsi alle sentenze. Gli schieramenti comunque sono “in itinere” e non si può valutare la situazione se non “a bocce ferme”. All’interno dello zoccolo duro di sostegno al Primo Ministro cominciano a vedersi alcune crepe. Alcuni gruppi legati al rabbinato Haredi che hanno assicurato fedeltà a tutte le scelte di Netanyahu purché attuasse le loro richieste di esenzione dei religiosi dal servizio militare e di finanziamento alle scuole religiose, a fronte del mancato rispetto delle promesse fatte, stanno ora ventilando una eventuale uscita dal governo.  È possibile quindi che Netanyahu decida di rinviare le riforme al sistema giudiziario per soddisfare le richieste dei partiti haredim, anche perché i sondaggi recenti dicono che se si andasse a votare oggi il governo sarebbe in minoranza.

L’Iran e l’economia.

Ma ci sono altri due problemi all’orizzonte di primaria importanza: il problema della minaccia iraniana ed il problema economico. Recentemente è stato scoperto un piccolo aeroporto che gli iraniani hanno costruito in Libano a 20 chilometri dal confine israeliano, adatto al decollo di apparecchi senza pilota. L’unità delle volontà distruttive contro Israele delle fazioni di Hamas e della Jihad Islamica fanno temere una guerra su più fronti, che potrebbe scoppiare in ogni momento. Questo rischio impone di tenere le mani ferme al volante.

L’altro problema, non meno importante, è quello economico. Israele a partire dagli anni ’90 ha fatto un balzo in avanti che le ha fatto superare non solamente la Grecia, le Spagna e l’Italia ma perfino la Francia per quanto riguarda il PIL pro capite. I dati economici a cui gli economisti guardano cioè il rapporto prodotto debito, disoccupazione ridotta al 3,5%   e inflazione al 3,6% sono ad oggi quasi ottimali, in situazione nettamente migliore rispetto a gran parte dei paesi dell’Unione Europea. Esistono però indicatori molto preoccupanti: la svalutazione notevole dello shekel ed il rischio che le agenzie di accreditamento facciano slittare la valutazione del sistema finanziario da positiva a mediocre potrebbero avere conseguenze catastrofiche sugli investimenti esteri e sull’economia del paese, conseguenze ad oggi non ancora palesi, a parte l’alto livello dei prezzi.

Negli ultimi decenni molti in Israele hanno derubricato il problema della pace con i palestinesi come secondario rispetto agli altri problemi del paese, uno status-quo che poteva essere mantenuto in sospeso quasi a tempo indeterminato. Più di recente alcuni intellettuali e politici hanno affermato invece che l’occupazione è l’elefante nella stanza, identificando quindi in essa la ragione profonda della attuale crisi della democrazia israeliana. Addirittura, molti esponenti politici e della società civile israeliana hanno rotto gli indugi nel definire la realtà dell’occupazione come un regime di apartheid. Qual è la tua opinione a riguardo?

Bisogna tener conto che all’interno della comunità palestinese esistono mondi diversi. Personalmente sono chiaramente schierato tra coloro che si oppongono all’occupazione di Giudea e Samaria e sono favorevole alla creazione di due stati, tramite un trattato che definisca le linee di confine e le competenze rispettive. Sono favorevole, in teoria, anche al trasferimento di territori e di popolazioni da una parte all’altra, in modo da creare due entità geopolitiche omogenee dal punto di vista demografico, linguistico e culturale.  L’attuazione di questo piano è però molto difficile, perché non esiste una controparte che lo accetti. A Gaza esiste uno stato autonomo palestinese basato sul terrorismo, con due movimenti che si combattono ferocemente. In Giudea e Samaria esiste un’autorità palestinese morta da tempo: il mandato dell’autorità palestinese è scaduto nel 2010 e da allora non c’è un governo legittimo. Abu Mazen, decrepito personaggio squallido e screditato, che sostenne una tesi di dottorato a Mosca decine di anni fa, secondo cui la Shoah non c’è stata ma se c’è stata è stata a causa dei sionisti, ormai non ha più nessuna autorità e nessun controllo del territorio, ove si sono rafforzati i movimenti terroristici armati come Hamas. Gli ultimi attentati sono stati fatti quasi tutti da indipendenti, non necessariamente legati ai movimenti classici: naturalmente qualcuno gli ha dato le armi o i soldi per procurarseli: si tratta di azioni sporadiche ma molto nocive che hanno causato numerosi morti e feriti. Alla morte di Abu Mazen potrebbero scoppiare lotte interne ai movimenti palestinesi, con prospettive comunque negative per Israele.

Nel parlamento israeliano esistono due partiti arabi, un terzo, antisraeliano, non ha superato la soglia. All’interno di uno dei due partiti Manzur Abbas ha dimostrato di essere un uomo politico estremamente interessante: non è stato membro del governo Lapid-Bennet-Ganz, ma è stato vicepresidente del parlamento ed ha avuto un ruolo decisivo nella formazione di quel governo. Per la prima volta ha detto esplicitamente che Israele è lo stato degli ebrei, che gli arabi israeliani sono una minoranza e che il compito del suo partito è tutelare gli interessi di questa minoranza, che soffre di una posizione sociale nettamente inferiore rispetto a quella degli ebrei e soffre del grave problema della criminalità. Le faide interne (quest’anno oltre 170 arabi sono stati uccisi da altri arabi) dimostrano che il concetto di unità interaraba è privo di fondamento. Lottare contro questi disagi significa investire, per esempio, in infrastrutture, in piani regolatori e ristabilire la legalità, consentendo di edificare costruzioni conformi alle leggi e lottando contro l’abusivismo.

 La divisione in 4 tribù (laici, sionisti religiosi, ultraortodossi e arabi) è stata sostenuta dall’ex presidente Reuven Rivlin in un noto discorso del 2015. In che misura la crescita demografica dei haredim (2 milioni tra 10 anni secondo proiezioni dell’Israel Democracy Institute) determinerà gli equilibri tra le varie “tribù” israeliane e quindi l’assetto politico di Israele nei prossimi 20-30 anni?
È realistico immaginare una ricomposizione delle fratture che separano in modo alquanto netto segmenti della popolazione che vivono nelle proprie rispettive bolle?
Allo stesso tempo si stanno formando in questo periodo crepe all’interno di gruppi nazionalisti religiosi e haredim e quindi ulteriori divisioni o restano in gran parte monolitiche? Per esempio, si è letto di gruppi di coloni che cominciavano a distanziarsi dall’integralismo di Ben Gvir/Smotrich.

La ripartizione del mondo israeliano in quattro tribù che il presidente Reuven Rivlin aveva fatto (laici, sionisti religiosi, ultraortodossi e arabi) oggi va seriamente corretta e riveduta: sia il gruppo degli haredim sia quello degli arabi sono estremamente conflittuali al loro interno, anche se tutto sommato questi due tipi a volte operano come unità compatte. Ma soprattutto, la distinzione tra laici e religiosi è sopravanzata dalla distinzione tra “costituzionalisti” e “anti-costituzionalisti”, non molto diversa dai due schieramenti di Trump e Biden negli Stati Uniti. Da un lato, coloro che rispettano i principi democratici della distinzione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, e dall’altro lato, coloro che non li rispettano.

Una seconda linea di frattura riguarda gli schieramenti sulla soluzione del conflitto israelo-palestinese. Da un lato c’è chi dice: giammai cederemo un centimetro quadrato della nostra terra. Dall’altro c’è chi dice: possiamo addivenire a un certo tipo di accordo sulla spartizione del potere e anche del territorio.

La terza discriminante riguarda la definizione di “popolo ebraico”, anche ai fini dell’applicazione della “Legge del ritorno”.  Alcuni riconoscono l’articolazione pluralista del popolo ebraico sia in Israele che nella diaspora e quindi ammettono nella definizione ebraica tutte le manifestazioni di ebraismo, anche quelle più moderne, quelle d’ispirazione americana tipo conservative e reform in quanto espressioni autentiche della comunità ebraica e quindi ne accettano “la salita” in Israele estendendola ai loro figli e nipoti anche se non ebrei come del resto ammette l’attuale legge del ritorno.

C’è chi invece rifiuta questo pluralismo e dice l’ebraismo è una compagine ortodossa compatta, non lascia alcuno spazio al riconoscimento del nipote non ebreo: sul tavolo del parlamento c’è una proposta di legge per abolire il capitolo nipote dalla legge del ritorno: in questo momento specifico non viene discussa, però è stata presentata. E se passasse, l’aliyah (immigrazione in Israele) diminuirebbe subito.

 Cosa è cambiato/come potrebbe cambiare la situazione in merito alle aliyot/yeridot (entrate e soprattutto uscite da Israele)?

Ancora non se ne parla, per ora sono tutti discorsi virtuali: i dati dicono inequivocabilmente che l’emigrazione da Israele negli ultimi 5-6 anni era ai minimi storici ed era nettamente inferiore in proporzione a paesi come la Svezia, l’Olanda e la Svizzera. Per chiarire, gli svizzeri vanno via dalla Svizzera più di quanto gli israeliani non vadano via da Israele, l’enfatizzazione del fenomeno è un discorso populista portato avanti ovviamente anche dai nemici di Israele: mi hanno intervistato giornali in tutte le lingue possibili ma i dati sono inoppugnabili. Però i dati possono mutare da un giorno all’altro e in tal caso il discorso cambierebbe velocemente e abbastanza drammaticamente, innescando una spirale, perché l’emigrazione è molto selettiva e se emigrassero 20.000 dottori puoi immaginare che cosa diventerebbe il sistema sanitario. Se emigrano i quadri Israele diventa rapidamente un paese sottosviluppato da cui la gente vuole andare via e allo stesso tempo perde attrattività per l’esterno. L’aliyah è fortemente in ribasso da tutti i paesi occidentali, fa eccezione la Russia da cui provengono molti nuovi immigrati, più che dall’Ucraina.

Una delle caratteristiche di Israele, fin dalla sua nascita, è stata la parità di genere. La spinta sempre più forte della componente religiosa mette a rischio anche questa condizione apparentemente acquisita dalla società israeliana?

Israele è indubbiamente uno stato molto avanzato nel campo del coinvolgimento femminile nella vita del paese. Alla Corte Suprema le donne sono sei su quindici: non sono la maggioranza, ma la presidenza è femminile. All’interno dell’attuale governo di estrema destra invece la partecipazione femminile è ridotta al minimo. Addirittura, il ministro alla parità femminile è una donna che non stento a definire antifemminista! Ultimamente ci sono stati interventi di autorità haredi che hanno proposto la separazione dei sessi sugli autobus e addirittura sui marciapiedi, ma questi tentativi sono stati fermati, per ora: questo conflitto rientra nel terzo tipo di frattura relativo alla definizione di “popolo ebraico” di cui sopra.

Ci sono prospettive realistiche di una maggiore partecipazione dei gruppi religiosi più ortodossi alla vita nazionale?

Rimangono irrisolti numerosi e gravi problemi. L’esenzione dall’obbligo del servizio militare ed il mantenimento dell’istruzione autonoma rispetto a quella della scuola pubblica potevano essere ammessi quando è stato fondato lo Stato di Israele, in cui i religiosi erano un numero esiguo. Oggi queste differenze creano grossi problemi a causa della crescita veloce del numero dei religiosi, a causa della loro alta fertilità che si avvicina ai sette figli per famiglia.
Ci sono poi tentativi di avvicinamento e di coinvolgimento dei religiosi nella vita economica e sociale del paese, cosa essenziale anche per cercare di ridurre in parte le diseguaglianze economiche: ma questo ha comportato la conseguente richiesta da parte loro di separazione per sesso del pubblico ai concerti o ad alcune lezioni universitarie. Non sempre è possibile trovare soluzioni che accontentino le esigenze dei religiosi, ma si possono fare dei tentativi. Per esempio, nella conduzione di una piscina pubblica, si potrebbero riservare due ore al pubblico femminile, due ore al pubblico maschile e il resto al pubblico misto. Soluzioni analoghe si possono trovare anche nell’espletamento del servizio militare: i ragazzi religiosi potrebbero essere mobilitati per svolgere attività di servizio civile di pubblica utilità nel loro quartiere, per esempio come supporto all’insegnamento per bambini in difficoltà. Queste proposte avrebbero l’appoggio dei giovani haredim, ma sono state rifiutate dai loro dirigenti, i quali hanno generalmente età avanzatissime ed hanno idee sociali fossilizzate.
Ci sono anche le eccezioni: nel partito Shas c’è stato Ovadià Yoséf, un grande rabbino sefardita, di ampie vedute, che ha svolto incarichi di moderatore sostenendo che è preferibile restituire territori piuttosto che spargere sangue ebraico. Ma i suoi successori perseguono anguste politiche di potere che privilegiano gli interessi economici di partito e di setta. E purtroppo le spaccature in Israele vengono esportate nella diaspora dove non mancano i megafoni dell’attuale coalizione clerical-messianica-anticostituzionale guidata da Netanyahu.

 


Dal testo della dichiarazione di indipendenza di Israele letto da Ben Gurion il 14 maggio 1948

 Lo Stato d’Israele sarà aperto per l’immigrazione ebraica e per la riunione degli esuli, incrementerà lo sviluppo del paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace, come predetto dai profeti d’Israele, assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite.


 

Vignetta di Davì

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