di Emilio Jona

Quodlibet ripubblica quest’anno un libro prezioso: ”Due conversazioni con Gershom Scholem su Israele, gli ebrei e la kabbalah”, si tratta di due interviste rilasciate l’una nel 1975,  strutturata cronologicamente per un pubblico ebraico, e l’altra nel 1976,  che segue un percorso tematico per un pubblico tedesco, che tuttavia  si integrano saldamente e ci offrono un  ottimo spaccato propedeutico ad una lettura più profonda del pensiero di questo grande intellettuale e ci appaiono per nulla invecchiate, ma di piena attualità e utilità per questo nostro travagliato presente.

Scholem vi appare a tutto campo come un razionalista anarchico per cui tuttavia la dimensione religiosa è essenziale e il suo anarchismo sta nell’utopia di una società fondata sull’assoluta libertà nella presenza di un messaggio divino. Il suo è un intreccio tra ebraismo messianico-religioso ed ebraismo politico-sociale, dove la missione della ragione è quella di essere critica nelle scienze sociali e in quelle naturali e la secolarizzazione è una fase del processo di un nostro ingresso nella storia, che non può esistere senza teologia e senza   una dimensione astorica. Questa sua posizione è presente fin dalla giovinezza quando respinge l’assimilazione, di cui la sua famiglia è l’incarnazione, e dichiara di essere ebreo per un sionismo socialista e antibellicista che ha saputo distruggere la realtà dell’esilio, che è rivoluzionario perché è sia contro l’assimilazione che contro il contesto tradizionale dell’ortodossia, ed è contro una guerra, in cui  gli interessi degli ebrei non coincidono con quelli della Germania.

Scholem si trasferisce nel 1923 in Palestina, le sue simpatie vanno alla sinistra e ai halutzim, sostiene la nazionalizzazione delle terre e si oppone alla speculazione edilizia imperante. Il suo è originariamente un sionismo vicino a quello di Martin Buber, da cui poi si allontana, e soprattutto a quello di Ahad Ha’Am, ma più religioso, perché non è possibile una morale senza la teologia e la religione.

Il tema della nascita di Israele e del suo rapporto con gli arabi è per lui di forte attualità e collide radicalmente con quello di oggi degli haredim e dell’estrema destra al potere. L’emigrazione ebraica in Palestina precede Hitler, ed è già forte negli anni ’30 una tensione senza possibilità di soluzione, ben presente fin dal tempo della pronuncia della commissione istituita dal governo inglese nel 1936, quando i sionisti avrebbero accettato la divisione tra uno stato ebraico ed uno arabo mentre gli arabi la respinsero accanitamente. Il grande problema storico, dice Scholem, è che entrambe le parti hanno argomenti autentici a favore delle loro tesi; in particolare gli ebrei non si sono inventati nulla, hanno con la Palestina una tradizione storica e forti relazioni sentimentali, il loro ricordo è una realtà che le aspirazioni all’assimilazione hanno combattuto invano; è la geografia di quella terra che essi conoscono, non quella del Marocco o della  Francia, ed è  in questo modo che, forti anche di un interesse letterario, il loro ricordo diventa il loro diritto. Scholem dice che nei suoi cinquant’anni di vita in Israele si è pienamente riconosciuto sia nella secolarizzazione del paese che nella sua religiosità, ma afferma che non si è riusciti a preservare la continuità insieme al cambiamento, perché coesistono ben distinti il conservatorismo dogmatico e l’indifferenza per il patrimonio culturale ebraico. Scholem considera come enigmatica la sopravvivenza dell’ebraismo e del popolo ebraico, ma ritiene che nascosto dentro il sionismo vi sia un mai considerato elemento messianico e che senza di esso sarebbe impossibile una redenzione politica; egli afferma che non va cancellato il confine tra piano messianico e la realtà storico politica, ma si dichiara sicuro che l’aspetto mistico nascosto nel sionismo un giorno si manifesterà.

Le pagine che Scholem dedica alla qabbalah, di cui è il massimo studioso, sono un’introduzione illuminante per entrare in questo affascinante aspetto dell’ebraismo, che egli ritiene imprescindibile per una sua piena comprensione. Si tratta di un versante relativamente recente, perché la sua nascita risale al dodicesimo secolo, ed è una teosofia fondata sulla lettura del volto nascosto della Torah, una immersione nei  misteri della divinità in relazione alla creazione e al nostro essere nel mondo, al nostro rapporto con Dio e con noi stessi; essa è una trasformazione delle cose in simboli, una  comprensione attraverso simboli che rendono visibile l’inesprimibile, vale a dire il processo con cui Dio si comunica al mondo e si riflette nella sua creazione. Scholem ci propone un’analisi storica e razionale della qabbalah come premessa necessaria per entrare nel suo aspetto non razionale, cioè   nella concezione mistica della rivelazione della Torah oltre la sua lettera.  Il percorso può essere panteista o teista, scavando in questo caso un abisso tra Dio e il mondo e ipotizzando, secondo la tesi luriana, uno tzimtzum cioè una contrazione di Dio nella creazione che lascia all’esistenza qualcosa che non è più di Dio, una libertà solo umana . Nella bufera della storia a tenere in vita l’ebraismo non è dunque sufficiente una sua comprensione puramente halachica, ma è necessaria la tradizione mistica che è parte integrante del processo di autodefinizione degli ebrei.

Questi pensieri sul misticismo portano naturalmente l’intervistatore ad interrogare Scholem sul suo rapporto con Benjamin, al suo ragionare tra attesa messianica e teoria della rivoluzione e al suo ritenere che dal punto di vista teologico ogni momento presente nasconda il potenziale messianico di una rivoluzione capace di “redimere” l’intero passato della storia umana. Era un tema affascinante, complesso, che interessava Scholem, e anche discutibile perché Benjamin tendeva a confondere redenzione e rivoluzione. Scholem era decisamente critico sul pensiero di Marx e di Freud ed era contrario all’uso di categorie psicologiche per spiegare fenomeni storici, (le considerava delle vie di fuga), e a una lettura marxista ed economicista della storia, perché priva di comprensione dei fenomeni della sovrastruttura, ma era molto interessato a questa inclinazione di Benjamin verso il tempo messianico anche se confondeva troppo le due sfere quella politica e quella religiosa. Benjamin, dice Scholem, aveva una forte coscienza ebraica, ma era come Freud e come Kafka “un uomo venuto da fuori”, in una certa misura estraneo alla società in cui viveva, non era sionista ma aveva sempre tenuta aperta la possibilità di venire in Palestina, ed aveva utilizzato categorie teologiche ebraiche a proposito di rivelazione, redenzione, messianismo; ad esempio il suo concetto di redenzione non voleva dire solo emancipazione sociale, ma qualcosa di più armonico e superiore che la travalicava.

L’ultimo tema trattato da Scholem in queste interviste è decisamente singolare e indicativo della sua non conformistica e poliedrica visione dell’ebraismo, riguarda la malavita ebraica. È un interesse che nasce in lui contemporaneamente a quello della mistica perché nelle biblioteche tedesche insieme ai manoscritti qabbalistici ne trova abbondante documentazione. Gli ebrei, dice Scholem, “comunicavano con il mondo circostante non-ebraico non solo nei raffinati salotti intellettuali, bensì anche nell’infimo strato sociale dove c’erano ricettatori ebrei o ladri ebrei, gente della malavita”. Si tratta di fatti che, per ragioni comprensibili, nelle opere di storia ebraica non vengono mai menzionati, avvengono soprattutto negli anni tra il 1750 e il 1860 nel mondo poverissimo del sottoproletariato ebraico e la malavita ebraica oltre che dalle regioni di lingua tedesca si estende all’est e poi nel gangsterismo americano. Va notato che questa comunicazione tra ebrei e non ebrei negli “scantinati” nella malavita tedesca avveniva “per l’essenziale in yiddish”. Di quest’aspetto sottaciuto Scholem dà una ricca documentazione anche anedottica; c’erano comunità intere che erano costituite, tranne il rabbino, da ladri o ricettatori. Scholem racconta più di una storiella famosa, ad esempio quella di una cittadina ungherese in cui il giorno di Kippur il rabbino voleva aprire lo stipo della Torah per estrarne il rotolo, ma non vi riusciva, e allora si era rivolto alla comunità e aveva detto: Qualcuno dei venerabili membri della comunità ha forse con sé il suo grimaldello?
Dunque, è il rovescio della medaglia ebraica che va anche indagato, liberandoci da una dimensione apologetica e rompendo un tabù ancor oggi resistente.
In questi tempi bui, in un Israele e, in parte, in una diaspora scisse e irriconoscibili, rileggere Scholem vuol dire respirare ossigeno e coltivare una speranza.


 

Scholem/Shalom. Due conversazioni con Gershom Scholem su Israele, gli ebrei e la qabbalah

di Gershom Scholem (Autore), Gianfranco Bonola (Curatore), Marcella Majnoni (Traduttore).  Quodlibet, 2023

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