Intervista a Marina Piperno

Intervista di Bruna Laudi

 

Marina ha i capelli bianchi cortissimi e due occhi azzurri, penetranti, che rivelano al primo sguardo la sua curiosità, l’interesse per il mondo circostante, il desiderio di non avere confini: sorride facilmente ed è accogliente in modo naturale. Ha il dono di mettere a suo agio l’interlocutore senza fare assolutamente pesare la sua storia professionale e la meritata fama di cui gode. È nota al pubblico come produttrice di film, ha viaggiato molto, ha avuto una vita professionale intensa.

L’ho conosciuta nel 2017, in occasione della presentazione a Torino, al cinema Massimo, del film “Diaspora, ogni fine è un inizio”: narrazione di un lungo viaggio, durato tre anni, che Marina Piperno, con Luigi Monardo Faccini, compagno di avventure cinematografiche da 40 anni, ha fatto tra Stati Uniti, Israele e Italia per ricostruire i legami e le storie della sua grande famiglia, dispersa dalle leggi razziali e dalla guerra.

Raccontami qualcosa di te

Sono nata a Roma, nel 1935 nella palazzina Diaz, in Piazzale Flaminio, appartamento di proprietà di Luigi Pirandello!

Mi sono sposata due volte: la prima nel 1959 con Ansano Giannarelli, toscano, non ebreo e con lui come regista ho iniziato a produrre il mio primo documentario: “16 ottobre 1943” sulla deportazione degli ebrei romani, tratto dal testo di Giacomo Debenedetti. Fu il primo documentario in Italia e in Europa sulla Shoah. È stato presentato decine di volte anche nelle scuole. Nel 62 è nata la nostra società cinematografica.

Ho divorziato da Giannarelli nel ‘72 mi sono risposata nel ‘77 con Luigi Faccini, regista con cui produco film, documentari ecc. Così altro matrimonio, altre conoscenze, altro lavoro. Tutto fuori dalle regole canoniche.

Il libro autobiografico “Eppure qualcosa ho visto sotto il sole” è stato scritto insieme.

Che differenza c’è tra produttrice e regista?

In genere le persone vanno a vedere “un film di …” attratti dal nome del regista, ad esempio, un film di Visconti, un film di De Sica: quello che conta per un pubblico che va al cinema per passare due ore divertendosi o anche riflettendo sulla storia che il film racconta. Il regista in Italia è quello che propone il soggetto del film, cioè la storia, a qualcuno che può fargliela realizzare. Quel qualcuno è appunto il produttore, che non è il finanziatore del film ma una figura che apprezza la storia proposta, va in cerca dei finanziamenti pubblici o privati dopo aver esaminato con il regista e altri collaboratori come lo sceneggiatore, colui che trasforma l’idea in una storia che stia in piedi, dal punto di vista del pubblico a cui è diretto e discute i vari problemi estetici, etici e tecnici con quelli che sono i principali collaboratori del regista come scenografi, costumista, direttore della fotografia, tecnici di vario tipo. La scelta degli attori viene fatta con il regista in modo che, una volta esaminati tutti i problemi, si passa a preparare un preventivo del costo dell’opera film.

La figura del produttore è quella di una persona che cerca i finanziamenti ma anche mette in piedi le risorse umane più giuste e compatibili per farli lavorare insieme a creare il film. Naturalmente il produttore ha una serie di figure intermedie che collaborano con lui e che sono responsabili che tutto proceda secondo i tempi stabiliti per le riprese e anche secondo quanto stabilito e deciso con il regista che è il responsabile del film dal punto di vista artistico. Quindi produttore e regista sono gli elementi fondanti del film, due figure con lavori diversi ma interconnesse.

Il tuo rapporto con l’ebraismo?

L’intervista che mi ha fatto Massimiliano Boni su Menorah1 spiega molte cose della mia vita legata all’ebraismo ma, forse, una mia risposta ad Amedeo Spagnoletto direttore del MEIS, Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah riassume il mio pensiero: guardando il libro che avevo portato per lui, l’autobiografia Eppure qualcosa ho visto sotto il sole, dopo aver scorso i primi capitoli che raccontano di prima e dopo la mia nascita, da dove provengono i miei e anche quella che possiamo chiamare per comodo assimilazione, parola apparentemente semplice, Spagnoletto, sfogliando le pagine mi ha chiesto: – Ma allora tu non hai mai sposato un ebreo? – E poi, ancora, – Perché? –

Ho risposto senza esitazione “Perché non volevo vivere nel ghetto!”

Come donna è stato più difficile svolgere la tua carriera? Come hai vissuto la tua esperienza professionale?

Come donna il mio lavoro è stato più difficile: non solo perché si trattava di cinema ma anche per un insieme di regole e aspettative che negli anni 50 vigevano in tutte le famiglie italiane e ancora più in quelle ebraiche.

Partiamo dal fatto che ero una bambina piena di fantasia, voglia di vivere e confrontarmi con gli altri, ed ero piena di domande a cui chiedevo una risposta: mia madre non aveva grandi esperienze di vita autonoma. Sposata a 21 anni con mio padre di 12 anni più grande di lei, spesso era infastidita dalle mie richieste. Suo padre era un antiquario importante nei tessuti antichi, negli arazzi, era molto rigido e autoritario tanto che aveva troncato il desiderio della maggiore delle sue figlie di andare all’università. A mia madre fece smettere il liceo, perché non voleva che andasse da sola a scuola, visto che la sorella aveva terminato.

Già da ragazzina scrivevo, e a 15 anni mi pubblicarono su una rivista una poesia. Fu allora che mi venne in mente che forse il giornalismo poteva essere un lavoro interessante. Questo fu l’input. Nel libro2 c’è un capitolo dal titolo “taccuini perduti e ritrovati” dove si racconta dettagliatamente quale fu il mio percorso.

Era la prima metà degli anni ‘50 e negli ambiti familiari suonava già un campanello d’allarme: si mormorava che mio padre mi lasciasse troppa libertà… nello stesso periodo il cinema cominciò ad essere parte della mia vita. Andavo la domenica mattina a sentire i dibattiti dopo il film e, anche se intervenivo poco, ero molto interessata.

Dunque, io avevo bisogno di vivere diversamente e, verso i 16-17 anni, cominciai a riflettere su cosa mi sarebbe piaciuto fare. Ero affascinata dal cinema e decisi che volevo andare da sola al festival del cinema di Venezia, mio padre era preoccupato, avrebbe voluto che andassi con qualcuno: davanti alle mie insistenze alla fine si offrì di accompagnarmi. A quel punto ho rinunciato!

Cominciai così a sentire una diversità profonda rispetto alla maggior parte delle ragazze della mia età. Erano gli anni 50, non mi piaceva pensare che il mio cammino di vita sarebbe stato il matrimonio: avere figli e stare a casa o aiutare magari mio marito, mi faceva orrore. Era un percorso che scrutavo all’interno della famiglia e della parentela allargata.

Volevo fare esperienze diverse: avevo buone amicizie con i ragazzi e mi annoiavo di più con le ragazze, che tutto sommato non capivano la mia decisione di trovare un altro modo per partecipare a quello che succedeva nel mondo.

Nel 1955 andai a New York per alcuni mesi, dagli zii emigrati tra il ‘39 e il ‘40 e lì scoprii che le giovani donne pensavano come me e che il matrimonio non era la sola via d’ uscita: sempre nel libro c’è un capitolo dedicato a New York e a quello che significò per me.

Non mi sono mai pentita della mia scelta ma, sicuramente, il primo uomo che mi ha aiutato è stato mio padre Simone Piperno che aveva capito che doveva lasciarmi provare a fare il mio viaggio. Il suo sorriso, ma anche la sua severità mi hanno accompagnato sempre.

Il femminismo arrivò negli anni ’70, quando io già da 10 anni producevo cinema, scontrandomi con un lavoro duro e difficile dove produrre era una prerogativa maschile.

Fu molto difficile entrare in un mondo che riservava alle donne ruoli di secondo piano come parrucchiera, sarta o truccatrice, lasciando che il bastone del comando rimanesse maschile. L’America mi insegnò che il sesso non era un limite ma bisognava impegnarsi con tutte le forze. Lo feci in solitudine senza riunioni, gruppi, rivendicazioni collettive.

Affrontai le difficoltà di genere, che durarono per molti anni, lavorando seriamente e superando molte diffidenze.

Ebbi la fortuna di avere un compagno che mi incoraggiava a perseguire con serietà la difficile strada della produzione, se questo mi appagava e dava risposte alla mia ansia di scontrarmi per ottenere quello che pensavo fosse giusto fare.

Ci sono stati periodi anche molto difficili, visto che il cinema che sono riuscita a produrre era un cinema “altro”, non di intrattenimento, un cinema che potesse essere utile a capire il mondo in cui vivevo io: insieme a tanti altri che, anche se in modi diversi, percorrevano una strada come la mia. Ho avuto la fortuna di avere un grande padre, molto attento, ma anche aperto al mondo che lo circondava, molto affettuoso con il mio primo marito, uomo intelligente e sensibile ma sempre molto preso dal suo lavoro che talvolta diventava l’unica cosa di cui sentiva la necessità. E ancora quando mio padre Simone conobbe Luigi, il mio secondo marito, stabilì con lui un legame profondo e nei pochi anni prima di morire, lo volle con lui sotto il talled nel giorno di Kippur al tempio grande.

Era un uomo che guardava chi mi stava accanto giudicandolo per quello che era, senza pregiudizio.

Che percezione hai dell’ebraismo nelle comunità e che percezione hai in generale dell’oggi, di quello che stiamo vivendo?

Sono venuta a conoscenza di episodi che mi hanno molto turbata, come alcuni casi di esclusione da parte delle comunità di Roma e di quella di Livorno in occasione del seder di Pasqua: a Livorno un rabbino non ha accettato di fare partecipare una persona, che da anni andava al seder, perché non ebreo secondo l’halakhà. Non ha avuto il permesso di prenotare la sua partecipazione.

Ora, non solo questo nega quello che è scritto, che l’ospite deve essere accolto, ma dimostra la voglia di separazione dal mondo che ci circonda, una chiusura inaccettabile, specialmente pensando alla tradizione di apertura delle comunità italiane.

Come pensi che debba vivere l’ebraismo la modernità, in relazione a quello che sta succedendo oggi in Italia: il fenomeno migratorio, la realtà dei nuovi poveri, una diseguaglianza sociale sempre più forte? La tua appartenenza, la tua storia ebraica condizionano il tuo modo di sentire? Dunque, la prima regola per affrontare la vita di un complesso mondo di 8 miliardi di persone, dovrebbe essere l’apertura verso l’altro, salvo casi di eccezionale gravità.

Non puoi affrontare ciò che avviene in un mondo che cambia sempre più rapidamente, chiudendoti in casa senza sapere e cercare di capire quello che avviene intorno a te e che prima o dopo potrà sommergerti, non bisogna aver paura del diverso e del nuovo.

Il popolo ebraico è sempre stato obbligato ad emigrare e a cercare nuovi territori dove insediarsi, l’ebraismo non deve ignorarlo. Lo dovrebbe ricordare ogni giorno.

L’ebraismo dovrebbe sempre ricordarsi che, per affrontare una società che cambia con grandissima rapidità, pur mantenendo alcune regole basilari, occorre il confronto diretto. Come è possibile che oggi nel paese che rappresenta l’ebraismo mondiale, Israele, ci siano comunità ortodosse, come anche in America, che vivono una vita separata. anche dagli altri ebrei, basando la loro vita su regole antichissime da loro riconosciute e applicate solo per il proprio potere assoluto sugli altri: regole ingiuste, ridicole usate specialmente contro le donne considerate solo buone a fare figli e sottomesse in modo totale, senza una libertà di scelta? Tra i tanti libri che ho letto di autori ebrei, mi ha dato angoscia “Danny l’eletto” (Chaim Potok), figlio di un rabbino askenazita che non rivolgeva mai la parola al figlio perché il silenzio aiutava la sua crescita interiore. Questo ebraismo non solo non potrà collegarsi con la modernità, ma fa danni incalcolabili all’ebraismo moderno e mondiale.

Come è possibile che anche in Italia il rabbinato sia contro i matrimoni misti, non lasciando la libertà agli sposi e ai loro figli di una libera scelta? Non credo che queste idee aiutino la vita ebraica del mondo.

Più stiamo rinchiusi e più verranno inventate storie negative sugli ebrei tutti, costretti ad essere rappresentati da persone che non vogliono integrarsi con nessuno. Per me, può essere la fine dell’ebraismo se non si riesce a cambiare questo atteggiamento verso un mondo che vive di soprusi, guerre, violenze.

Certo gli ebrei non possono essere soli ad arrestare questa tragedia, ma potrebbero essere di grande aiuto visto che c’è un pilastro fondamentale per la vita ebraica: la cultura e l’istruzione che da sempre li hanno portati non solo a sopravvivere, ma ad esistere come una realtà importante in tanti settori.


 

1 https://riflessimenorah.com/donna-libera-ebrea-questa-sono-io/#:~:text=Donna%2C%20libera-,% 2C,-ebrea%3A%20questa

2 Eppure qualcosa ho visto sotto il sole


Il 23 maggio, a Gorizia, in occasione del XIX Festival Nazionale della Storia, Marina Piperno riceverà il premio è Storia Film Festival 2023 con la seguente motivazione:

“Prima produttrice donna nell’àmbito del cinema italiano, ha attraversato il secondo Novecento ed è giunta fino ai giorni nostri, intrecciando una passione totalizzante con una grande finezza intellettuale e una straordinaria umanità. Il premio èStoria Film Festival 2023 va a Marina Piperno per avere lasciato un’impronta indelebile nel cinema italiano d’autore e per avere tramandato una lezione professionale irripetibile a chi le si è affiancata nel tempo”.

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