di Beppe Segre

 

La famiglia Levi, composta dai genitori e dai tre figli, Isacco, Lelio e Amelia, tutti ebrei, abitava in una vecchia casa di ringhiera, ai bordi del vecchio Ghetto di Saluzzo.

Nata il 30 maggio 1927, Amelia (anzi Amelia Regina Perla Levi ché questo era il suo nome completo), la più piccina della famiglia, affettuosamente coccolata dai genitori e dai fratelli maggiori, aveva 11 anni quando fu costretta dalle Leggi Razziali a lasciare la scuola. Da allora lei si occupò delle faccende di casa, i fratelli trovarono un’attività come apprendisti; al padre Marco, anche se discriminato perché aveva aderito al fascismo e perché era stato insignito della croce di ferro all’esito della Grande Guerra, era stata revocata l’autorizzazione all’esercizio del commercio ambulante di tessuti e mercerie, finché le tensioni e le preoccupazioni gli provocarono un’ulcera, che lo portò alla morte nel marzo 1943, a soli 50 anni.

Un paio di portoni più in là, nella prima casa al di fuori del Ghetto viveva la famiglia Garzino, composta anche questa dai genitori e da tre ragazzi: Giovanni, Gina e Mario. La famiglia era titolare di una panetteria, in posizione centralissima, a fianco dell’ingresso nel Ghetto, assai frequentata, un punto di incontro tra i saluzzesi. I Garzino maturarono una grande competenza in questo settore e sicuramente anche i figli continuarono ad esercitare l’attività di panettiere.

Mario, il più giovane dei tre ragazzi, frequentò con profitto il Liceo Classico. Le persone che lo conobbero raccontavano di un ragazzo entusiasta e sensibile, consapevole di quanto accadeva intorno. Nato il 1o settembre 1928, nell’estate 1944 Mario non aveva ancora compiuto 16 anni, l’età in cui i ragazzi normalmente pensano a giocare al pallone, quando il 25 agosto 1944 lasciò l’amatissima famiglia e salì in val Varaita per arruolarsi nella 181a Brigata Garibaldi, come già aveva fatto anche Isacco, il fratello maggiore di Amelia, assumendo come nome di battaglia  “Margherita”. Pur di formazione cattolica, seppe conquistare la stima e la gratitudine del comandante che apparteneva invece all’area comunista.

Prima di lasciare definitivamente la famiglia scrisse due lettere, una per la “mammina” ed una per tutti i familiari, veramente strazianti:

 “Carissimi, dopo aver chiesto il vostro permesso mi sono deciso a compiere questo passo che credo sia se non il più importante almeno uno dei più importanti della mia vita. Quando leggerete queste mie righe che vorrebbero essere e sono per scusare la mia, diciamo, evasione, sarò già in viaggio per raggiungere Venasca e congiungermi coi patrioti. Spero che non vi passerà per il capo l’idea che io sia stato pompato da alcuno o che non vi voglia più bene e simili cose, giacché io mi sono allontanato da voi, miei carissimi, solo perché ero stufo e arcistufo di stare ad assistere impassibile alla grande tragedia che si sta svolgendo”.

Il giorno prima i saluzzesi radunati sotto la tettoia del mercato erano stati obbligati ad assistere ad una scena spaventosa, agghiacciante. Le Brigate Nere avevano deciso di impiccare pubblicamente un partigiano, ma durante l’esecuzione la corda si era spezzata e il ragazzo caduto in terra era stato finito con una sventagliata di mitra e poi riappeso con un gancio da macellaio affinché tutti potessero vederlo.

Secondo alcuni testimoni la scena era stata così terribile e spaventosa da suscitare il raccapriccio dei saluzzesi presenti, anche di Mario che stava tornando dall’oratorio. Era questa l’oscenità che aveva spinto Mario a reagire.

A me piace pensare che per “grande tragedia” Mario si riferisse non solo alla  sofferenza di quel povero partigiano così barbaramente  ucciso ma anche  alla disperazione per l’intera Europa dominata dalla barbarie nazifascista.

Come foglioline spazzate via dall’uragano, Mario e Amelia furono impotenti di fronte ai tragici percorsi che si spalancarono davanti a loro.

Non ne abbiamo testimonianza diretta ma immaginiamo che Mario sarà stato sconvolto anche dalla sorte dei Levi di via Spielberg: i due ragazzi, Mario e Amelia, abitavano a pochi passi di distanza, avevano la stessa età, forse erano amici o erano stati compagni di scuola, certamente si conoscevano bene. Benché fosse allora anche lui un ragazzino, non lo aveva lasciato indifferente sapere che Amelia era stata cacciata da scuola.  Poi, quando, sedicenne come lui, a gennaio, con la mamma e un fratello, Amelia era sparita: arrestata da italiani, detenuta nel campo di Borgo San Dalmazzo, deportata chissà dove,  la consapevolezza di dovere in qualche modo reagire era cresciuta. E quando in aprile era rimasto inorridito dalla razzia, alla Casa di Riposo Tapparelli e nelle loro abitazioni o per strada, della nonna e degli  zii  di Amelia e di tanti altri ebrei che conosceva da quando era bambino, aveva  sentito dentro di sé salire l’indignazione. L’impiccagione del giovane partigiano aveva fatto sì che, come avviene ai giusti, per la sua coscienza la misura fosse colma. Doveva agire.    

Mentre Amelia ad Auschwitz era sottoposta a sevizie, Mario inviato a Saluzzo per far brillare un esplosivo davanti alla Casa del Littorio, riuscì a raggiungere la sua famiglia per salutarla e darle sue notizie.

Il 18 settembre, mentre cercava di trasmettere un messaggio urgente al distaccamento della Val Varaita venne sorpreso e imprigionato dai repubblichini guidati dal tristemente noto tenente Adami.

Amelia era già morta ad Auschwitz quando Mario venne trasferito dal carcere di Saluzzo al blocco E (reparto di rigore) del campo di transito di Bolzano. Il ragazzo, insieme con altri compagni, tentò la fuga, ma venne scoperto e mandato con il primo convoglio dell’11 gennaio 1945 al campo di eliminazione di Mauthausen come prigioniero politico.

Mario sopravvisse alle atrocità della condizione da deportato, ma fu scelto dai nazisti il 23 aprile 1945 per la grande soluzione finale: condotto alla camera a gas, morì a poche ore dall’arrivo degli Alleati.

Dopo la guerra: la lapide

Nei primi anni dopo la guerra, sul muro della panetteria Garzino venne apposta una lapide per ricordare Mario e la sua vita troppo breve:

Lasciando questa casa colma di affetti famigliari / il 25 agosto 1944 / MARIO GARZINO / sedicenne / con animo conscio e presago / raggiungeva sui monti della Valle Varaita / i difensori della libertà d’Italia. / Catturato e deportato in campo di eliminazione / con dignitosa fierezza sopportava le atroci sevizie / veniva soppresso dalla rabbia del nemico ormai vinto, a fine aprile 1945 / Saluzzo settembre 1928 – Mauthausen aprile 1945.

I due fratelli, Giovanni e Gina, mantennero la memoria di Mario, eroe della Resistenza, e insieme continuarono a gestire la panetteria fino al 1981.

1974: quella volta che l’onorevole Pertini venne a Saluzzo

Nel trentesimo anniversario dell’inizio della lotta di Liberazione, il 1° ottobre 1973 il Presidente della Camera dei Deputati, Sandro Pertini, medaglia d’oro al valore militare, venne a Saluzzo a ricordare gli ideali della Resistenza ed a consegnare alla sorella Gina la medaglia in bronzo al valore civile in memoria di Mario.

Pertini iniziò la sua orazione:

C’è una differenza fra il primo e il secondo Risorgimento italiano. Il primo ha avuto come protagonista la media e piccola borghesia, il secondo ha avuto come protagonista la classe lavoratrice. Dei 5619 processi politici celebrati dal tribunale speciale fascista, 4644 erano contro operai e contadini”.

L’antifascismo e la Resistenza si sono conclusi con la riconquista della libertà, quella libertà – ha ricordato Pertini -, che è un bene inalienabile se non si vuole che il popolo sia trasformato in armento e i cittadini in servitori in ginocchio”. “Io stesso — ha continuato l’oratore — che sono socialista, rifiuterei la più radicale riforma sociale se essa dovesse costare la rinuncia alla libertà. Ma libertà vuol dire anche giustizia sociale, onestà e rettitudine ed è la classe politica che deve dare questi esempi se non si vuole scivolare sul terreno del qualunquismo, che è l’anticamera del fascismo”.

Ma successe un evento imprevisto. Il Presidente della Camera aveva appena terminato il discorso ufficiale nella piazzetta di fronte alla panetteria, quando fu oggetto di contestazione da parte di un gruppetto di giovani aderenti ad organizzazioni di estrema sinistra, extraparlamentari secondo il lessico di quegli anni.

In breve, la folla presente nella piazzetta si divise in due: c’era un gruppo che scandiva in coro slogan politici di contestazione del sistema e un’altra parte, che cercava di zittirli, scandalizzata di un simile attacco contro un personaggio esemplare: medaglia d’oro della Resistenza, antifascista da sempre, socialista, di comportamento integerrimo, come riconosciuto da tutte le forze politiche.

Rivolgendosi ai giovani, l’onorevole Pertini concluse: “Non avete inventato voi la parola contestazione, l’hanno praticata prima di voi Socrate e Cristo, abbiate coraggio nel difendere la vostra dignità personale, non ricorrete alla violenza materiale, fate che la vostra contestazione sìa illuminata dalla luce di una grande fede politica. Ma abbiate presente che la scelta deve presupporre il principio di libertà. Tenete sempre alta la bandiera dell’antifascismo, della Resistenza, della libertà, della giustizia sociale, della pace”.

Poi prese il sopravvento una grande ovazione, Pertini salì sulla macchina blu di rappresentanza, che lo attendeva e che partì veloce con una sgommata minacciosa.

Il Presidente deve essere a Roma al più presto”, ci aveva appena spiegato un agente della scorta.

Ad Amelia Levi, ammazzata di sevizie a 17 anni ad Auschwitz  perché ebrea, vada il nostro ricordo, con pietà e dolore. 

A Mario Garzino, morto a 17 anni a Mauthausen perché “stufo e arcistufo di stare ad assistere inerte alla grande tragedia che si stava svolgendo”, e che non rimase inerte di fronte al sangue del suo prossimo”, secondo l’insegnamento biblico (Levitico – XIX, 16) vadano il nostro affettuoso ricordo e la nostra imperitura gratitudine.

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