di Emilio Jona

Apro una vecchia rivista ebraica che mi è cara, perché affonda nella mia infanzia. È la Rassegna mensile di Israel, fondata nel 1925 all’incirca quando sono nato; la pubblica l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
Io ricordo sempre la stessa copertina severa in grigio chiaro, talvolta con la fotografia di gruppo di studiosi, di “scole” rabbiniche, o di istituzioni ebraiche. Anche il suo contenuto ha sempre avuto qualcosa di remoto, di antico, di fermamente legato alla storia religiosa e culturale di quel tenace popolo minoritario.
Mio padre ne era abbonato sin dalla sua nascita, la leggeva la sera sulla sua Frau di pelle ormai spelacchiata, accanto al camino che nelle sere d’autunno ancora accendevamo, e aveva, da come me la ricordo, un buon odore antiquato di una carta forse lavorata a mano.  Nel mio immaginario si lega indissolubilmente alla Mezuzah posta all’interno della porta d’ingresso della nostra casa, che i nazisti che la occuparono non videro e quindi non profanarono e alla Hanukkiah, di splendida fattura polacca settecentesca, che mio padre, presidente della comunità biellese negli anni dell’antisemitismo, aveva acquistato a caro prezzo per dare aiuto a un correligionario fuggito dalla Germania nazista o dalla Polonia antisemita.
All’ingresso di casa nostra, poi, campeggiava il bossolo di latta con i colori bianco azzurri della bandiera israeliana dove mio padre mi faceva infilare le cinque lire d’argento, di cui sentivo il tintinnio nella loro caduta al fondo del bossolo.
Una volta ogni due o tre mesi, un addetto alla fondazione ebraica che si chiamava Keren Hayesod, veniva regolarmente a ritirarne il contenuto che serviva a comperare dagli sceicchi arabi le terre incolte della Palestina.

La rassegna mensile di Israel è una rivista che io leggo in modo affettivo, ha poco di più della mia età, e selettivo, perché a saggi di raro impegno culturale accosta vicende minute di carattere religioso e talmudico o notizie che non entrano tra i miei interessi. In questo volume, 88, numero 2-3, pubblicato nel febbraio scorso, la mia attenzione si è soffermata su di un articolo di Claudia Rosenzweig, filologa, che ha a che fare con le mie curiosità di carattere indiziario sulle vicende israelo-palestinesi.
L’articolo riguarda la traduzione in Israele di uno dei libri fondamentali sulla Shoah, Se questo è un uomo di Primo Levi. Com’è noto esso fu pubblicato parzialmente in sei puntate nel 1946 su l’Amico del popolo, bisettimanale comunista di Vercelli, diretto da Silvio Ortona, allora segretario della locale Camera del lavoro, che fu l’amico più stretto di Primo Levi, mentre nell’anno successivo l’editore Einaudi ne rifiutò la pubblicazione. Ciò avvenne a maggioranza in una riunione del comitato di redazione della casa editrice, in cui sedevano, con poteri determinanti, Cesare Pavese ed Elio Vittorini, e Natalia Ginzburg, amica di famiglia di Primo, ebbe l’incarico di dargliene comunicazione. Di questa vicenda si trova ampia e documentata analisi in un articolo di Walter Barberis (in Atlante della letteratura italiana di Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà, vol, III, Dal romanticismo ad oggi, a cura di Domenico Scarpa, Einaudi, Torino 2012, pp.754-757). Sembra strano a dirsi oggi, ma in quell’immediato dopoguerra un libro di memoria sull’esperienza dei reduci dai campi di sterminio non suscitava alcun interesse. Si trattava di un clamoroso errore di valutazione editoriale e culturale che Umberto Saba, tra i pochi, non aveva commesso. Saba aveva scritto a Levi il 3/11/1948 che “più che un bel libro è un libro fatale” e Franco Antonicelli, che ne aveva subito compreso l’importanza e l’eccezionalità, lo aveva pubblicato nel 1947 nella sua piccola, ma prestigiosa, casa editrice De Silva. Il libro ebbe scarsa attenzione dalla critica e nessun successo editoriale. 11 anni dopo, nel 1958, finalmente Einaudi lo pubblica e solo allora comincia la sua fortuna nel mondo.

In Israele la prima traduzione di Se questo è un uomo avviene nel 1989, vale a dire due anni dopo la morte di Primo e 42 dopo la sua pubblicazione in Italia. La filologa Claudia Rosenzweig ne analizza in questo numero di Israel i suoi aspetti semantici di forma e di contenuto, prendendo spunto da una nuova traduzione del libro nel 2024. Essa ricorda che quella prima e storica traduzione era stato oggetto di critiche circostanziate in vari articoli su Haaretz (27-7-2020 e 13 -2-2024, versione inglese) e in lungo saggio di David Meghnagi ed era stata materia di un corso che la stessa Rosenzweig aveva svolto con i suoi studenti e Alberto Cavaglion.
Credo che l’enorme ritardo con cui il libro è stato pubblicato e come è stato tradotto in Israele meritino un commento, che va oltre all’ aspetto strettamente filologico analizzato dalla studiosa.
L’integrazione delle diverse memorie della Shoah in Israele è stato un processo lento, che non è avvenuto in modo lineare e probabilmente non può dirsi concluso neppure oggi. È certo che solo nel 1961, col processo Eichmann, la Shoah ha assunto quella centralità che mai aveva avuto in passato. Il mondo dell’ebraismo diasporico e quello sabra (nativi israeliani) erano un tempo due mondi divisi; per i sabra gli ebrei europei si erano lasciati sgozzare come agnelli sacrificali, mentre loro avevano combattuto e vinto. Poi, con il processo Eichmann, Israele aveva realizzato un grande rito collettivo di ripensamento e di rivalutazione di quel passato e la Shoah era stata assunta come mito fondativo dello Stato accanto a quello del sionismo. Le due anime si erano così incontrate e riappacificate con una sostanziale mutazione di paradigma, che aveva comportato anche una mutazione della figura dell’ebreo e una lettura della Shoah in chiave prevalentemente ebraica. Essa divenne così quello che in realtà era stata solo in parte, un conflitto mortale tra nazismo ed ebraismo in cui, sia pur con un immane contributo di sangue l’ebraismo aveva vinto. Così l’ebreo, e in particolare l’israeliano, ritornò ad assumere una posizione “privilegiata”, non più negativa per il suo vecchio status di popolo paria, ma positiva per quella, rinnovata, di popolo eletto coi benefici che ne conseguono per la sua caparbia vitalità, la sua esemplare resistenza ad ogni sventura, un tempo vittima e perdente e ora vincitore.
In questo conflitto di rappresentazioni della Shoah, una riduttiva ed ebraicizzante e l’altra universale e laica, sta una delle ragioni di fondo dell’enorme ritardo con cui Se questo è un uomo è apparso in Israele. Ma non va sottaciuto l’altro aspetto, altrettanto importante, che prima si è frapposto e poi ha condizionato la sua pubblicazione, quello dell’incomprensione del suo eccezionale valore letterario. Il traduttore e gli editori lo hanno letto, collocato e poi dimenticato tra i tanti libri di memoria, quindi l’hanno tradotto più per dovere, quando ormai era famoso nel mondo, senza capirlo ed apprezzarlo. Ne sono riprova le modalità con cui Garti (il traduttore) è intervenuto sul testo. La sua traduzione non lo rispetta, non tiene conto della sua struttura linguistica, della sua sintassi e del suo lessico, della concentrazione letteraria che lo anima, del suo spessore etico, della sua forza narrativa e si permette interventi arbitrari ed aberranti su quella prosa essenziale e profonda, modificandone il senso, tagliando frasi, dilatandone gli spazi sostituendo ed aggiungendo parole, illudendosi di migliorarne così la lettura e la comprensione.

Ecco qualche esempio su entrambi i campi semantici analizzati dalla Rosenzweig.

Il  mondo infero di Levi diventa “ il mondo crudele”, la vita del Ka-Be che è vita di limbo, si muta in “Nel Ka Be la vita assomiglia all’esistenza nel limbo”, la pacata affermazione che il libro potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano,  si trasforma in “Forse avrà la facoltà di  illuminare alcuni aspetti nascosti dell’animo umano al fine di comprenderli”, mentre all’originale di fronte a questo complicato mondo infero Garti insiste con un insensato “ di fronte a un mondo crudele”.

Le pagine straordinarie in cui Levi descrive il lutto della famiglia tripolina dei Gattegno e la loro veglia funebre vengono sconciate tagliando due righe essenziali, e poi modificando profondamente il testo. Scrive Levi:

Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta… e disposero al suolo le candele funebri… e si sedettero a terra a cerchio per la lamentazione…e ci discese nell’animo, nuovo per noi, il dolore… E Gartì traduce:

“Molti di noi stettero accanto all’apertura della loro baracca… posero sulla terra le candele funebri e si sedettero per la lamentazione.
Lentamente pervase le nostre anime un sentimento nuovo.”
E così la prosa tesa ed icastica di Levi perde la sua identità, la sua nitidezza e la sua crudezza e viene stravolta in una generalizzante banalità, mentre viene spenta quella sua emozionante attenzione antropologica, che rimanda ad un ordine rituale e alla creazione di un dolente spazio di un lutto circolare.

Infine, la versione israeliana interviene, come si è detto, oltre che sulla forma anche nella sostanza, là dove distorce il testo in modo arbitrario, tentandone una vera e propria ebraicizzazione. Dire che il popolo ebraico è un popolo che non ha terra, come scrive Levi è ben diverso dal dire che è “un popolo che non risiede nella sua terra”, mentre la semplice scarna atroce figura della morte assume nella traduzione di Garti le sembianze dell’Angelo della Morte e della distruzione in senso biblico (chorban) assenti nel testo di Levi. Dice Levi nell’ultimo capitolo: Intorno era distruzione e morte, mentre nella traduzione si legge “Su tutto regnavano l’Angelo della Morte e della Distruzione “, e poco oltre il secco e lapidario: Fu la volta di Somogyi, viene trasformato in “L’Angelo della Morte visitò (pacad) Simogyi”.

Ora le due parole ebraiche hanno un forte sapore vetero testamentario, mentre l’Angelo della Morte è una tipica figura della letteratura rabbinica e della mistica e della cultura popolare ebraica; tutti questi immaginari ebraici sono assenti in Se questo è un uomo.
È evidente che questo lungo silenzio prima e questa diffusa incomprensione poi sono indizi di un ben radicato rapporto critico con quel testo e di visioni contrastanti sull’ebraismo diasporico e su quello israeliano. Di qui il rifiuto, lungo 42 anni, a prendere in considerazione il testo per quello che è, l’incomprensione del suo valore letterario universale, gli interventi irrispettosi e la sua collocazione nello spazio minore della memorialistica.

Questa deliberata distorsione di senso per adattarlo ad un diverso ordine di valori e di giudizi ha condizionato e alterato per tanti anni una corretta lettura del testo e del pensiero di Levi. A ciò si aggiunga che la traduzione di Garti, nonostante le critiche severe e documentate che ha subito, non è stata mai riveduta nelle varie ristampe che si sono succedute, uguali per 35 anni, sino al 2024 quando è uscita una traduzione nuova e più fedele. Di essa non possiamo che rallegrarci, anche se si tratta di un divorzio tardivo da un testo infelice. Resta tuttavia una storia che turba e inquieta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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