di Filippo Levi
Rapporto dialettico tra Israele e diaspora
A partire dalla sua nascita nel 1948 Israele ha assunto un ruolo centrale nell’ebraismo mondiale, la stragrande maggioranza degli ebrei, sionisti e non, ha immediatamente riconosciuto nello stato ebraico un centro culturale ed identitario preminente dell’ebraismo. L’identificazione di Israele quale centro culturale e spirituale dell’ebraismo ha riguardato uno spettro amplissimo delle varie identità ebraiche diasporiche, da quelle più ortodosse a quelle riformate, conservative e laiche, da quelle di sinistra che hanno avuto come riferimento le esperienze dei kibbutzim a quelle più nazionaliste, da coloro i quali hanno scelto Israele come rifugio dalle persecuzioni a coloro che invece lo hanno scelto spontaneamente lasciandosi alle spalle la sicurezza di una vita agiata nelle società più ricche del mondo occidentale.
In Israele è indubbio che sia fiorita una cultura ebraica forte capace di spaziare dagli aspetti più tradizionali legati allo studio delle yeshivoth, ad università di altissimo livello tanto nel campo scientifico che in quello umanistico. Chiunque sia stato in Israele sa che l’offerta culturale, teatrale, musicale, artistica presente nel paese può rivaleggiare con quanto di meglio è presente nelle più rinomate scene mondiali.
Data la bimillenaria aspirazione nazionale degli ebrei, assumere Israele come centro di riferimento per l’ebraismo diasporico mondiale è stato automatico, ma questo passaggio è stato reso possibile in larga parte perché Israele, al di là delle pur corrette critiche storiche che sono state fatte, è stato percepito dagli ebrei di tutto il mondo come uno stato di diritto, libero, democratico, pluralista e rispettoso dei diritti umani.
Questi valori sono profondamente sentiti come propri nelle moderne società occidentali e democratiche (o almeno lo erano maggiormente sino a qualche decennio fa), ma sono anche alla base di una larghissima parte del pensiero e dell’etica ebraica. Noi siamo stati educati al pensiero che quella parte dei valori democratici di inclusione, tolleranza, rispetto del prossimo, che abbiamo assunto come riferimento imprescindibile per i nostri modelli sociali, derivino dalla cultura ebraica e dalla interiorizzazione di un trascorso bimillenario di essere minoranze spesso calpestate e perseguitate dai potenti di turno.
L’ebraismo è per antonomasia la civiltà del diritto e altrettanto profondamente è radicato nel pensiero ebraico il concetto di rispetto per lo straniero, così come quello di giustizia e di tzedakkà. Penso che nulla sia più profondamente costituente l’identità ebraica che non il ricordare che si è stati schiavi in Egitto, con tutto ciò che da questo consegue; è facile, ad esempio, farne derivare un imperativo a non assoggettare altri popoli.
L’etica ebraica è stata indubbiamente anche la base costitutiva dei principi di comportamento di Tsahal, esercito popolare di un paese in stato di guerra permanente che ha preteso un comportamento etico dai propri ufficiali e soldati, anche a dimostrazione del fatto che si può combattere per la propria esistenza senza cadere negli orrori compiuti da altri eserciti in altre parti del mondo.
Nonostante le difficoltà determinate dalla realtà politica dei fatti, a partire dagli albori del sionismo, la nascita dello stato democratico, il suo sviluppo economico e sociale, la sua forza innovatrice anche nell’ambito della tradizione, la capacità di assorbire alioth (immigrazioni ebraiche) provenienti da ogni parte del mondo hanno rafforzato l’idea di Israele come centro propulsivo di valori positivi per l’ebraismo, apprezzato da pressoché tutte le diaspore nel mondo.
Questo processo è oggi entrato in crisi.
I governi a guida Netanyahu che si sono alternati negli ultimi anni hanno prodotto (e sono stati il prodotto) un mutamento profondo dell’identità israeliana dello stato.
Il tentativo di sovvertimento dell’ordinamento democratico dello stato di diritto che Netanyahu sta perseguendo in questa ultima legislatura è solamente l’ultimo episodio di una serie di atti che sono in antitesi con i valori costituivi dello stato e della nostra identità ebraica.
Netanyahu ha sempre, apertamente, lavorato per rendere impossibile la creazione di uno Stato palestinese, implicitamente ed esplicitamente quindi affermando il diritto di Israele a dominare un altro popolo. Netanyahu ha sempre avuto un modello di sviluppo ultraliberista, ispirato al turbocapitalismo americano, in cui non c’è spazio per i concetti di giustizia sociale, solidarietà ed inclusione, ma solo alla logica del profitto.
Uno dei momenti di svolta in questa mutata percezione del ruolo di Israele risale al 2018. In quell’anno Netanyahu ha fatto approvare una legge che rivendicava l’ebraicità dello stato, discriminando così di fatto le minoranze presenti in Israele. Questa legge è stata fortemente contestata anche dall’allora Presidente Reuven Rivlin che riscontrava come “alcune clausole contenute nel testo potrebbero spezzare i delicati principi costituzionali” di Israele e vanificavano gli sforzi compiuti dai precedenti legislatori per prevenire la discriminazione delle minoranze. Anche all’interno dello stesso Likud emersero delle critiche, come quella del deputato Benny Begin che ha affermato che: “La legge non è quello che si aspettava dal suo partito” avvertendo che avrebbe potuto aumentare le tensioni sociali e rafforzare il nazionalismo estremo.
I timori espressi allora da Begin si sono rivelati purtroppo profetici, il nazionalismo estremo in Israele da allora si è rafforzato in maniera enorme, diventando l’elemento ideologico fondante dell’attuale governo israeliano e dettandone le linee politiche.
La guerra scatenata da Hamas con l’attacco del 7 ottobre ha fatto da ulteriore catalizzatore per questa trasformazione di Israele. Il trauma scaturito dalle brutalità commesse da Hamas è stato sfruttato in maniere astuta e sconsiderata dal governo Netanyahu per consolidare il proprio disegno di trasformazione dello stato, di oppressione e progressiva segregazione dei palestinesi in Cisgiordania, di cancellazione della prospettiva di arrivare alla creazione di uno Stato palestinese, di riduzione dei diritti degli individui e di sovvertimento dei principi fondativi dello stato di diritto.
Hamas è stata dipinta come minaccia esistenziale allo Stato di Israele e pertanto è stata decisa una guerra senza quartiere e senza fine per arrivare alla distruzione totale di Hamas, costi quello che costi, senza considerare, al di là di vuota retorica ufficiale, né il valore delle vite degli ostaggi israeliani né tantomeno quelle dei civili gazawi. Hamas è sicuramente stato in grado di uccidere, stuprare, rapire centinaia e centinaia di civili, di infliggere una terribile ferita ad Israele, alla sua sicurezza umiliandolo profondamente, ma qualcuno può seriamente affermare che Hamas fosse in grado di distruggere Israele militarmente?
La minaccia alla sopravvivenza dello Stato di Israele è stata indubbiamente molto seria in occasione della guerra del Kippur, quando gli eserciti siriani ed egiziani ruppero le difese israeliane e dilagarono sul Golan e nel Sinai. In quel caso sì che Israele avrebbe potuto essere distrutta, qualora Tsahal non fosse riuscita a fermare l’avanzata degli eserciti nemici. Ma allora Israele non cercò di annientare il proprio nemico, anzi, una volta ripristinata la propria sicurezza e vinta la guerra si avviò sulla strada del primo storico accordo di pace.
Questo a dire come la narrazione ideologica e politica del conflitto in corso a Gaza sia stata strumentalizzata dal governo israeliano per rafforzare la propria ideologia, nazionalista e sciovinista, di una Israele messianica in lotta contro le forze del male, in una progressiva identificazione tra lo stato ed il governo, in cui chiunque muova delle critiche alle azioni del governo è automaticamente definito antisemita.
Quali sono quindi oggi i valori che Israele è in grado di emanare ed ispirare al resto del mondo ebraico? È ancora possibile pensare a Israele come centro di riferimento per l’ebraismo mondiale senza che questo implichi una involuzione del pensiero ebraico che porti al rinnegamento delle proprie basi etiche e morali?
Pur nella consapevolezza che anche oggi in Israele sono presenti forze politiche e movimenti culturali che cercano di contrastare le politiche della destra israeliana, sappiamo che questi sono minoritari e non rappresentano la proposta culturale che proviene dallo stato israeliano.
Non si tratta, sia chiaro, di un semplice mutamento di maggioranza politica come è bene che capiti in ogni stato democratico, di un passaggio tra destra e sinistra, ma di un mutamento sostanziale dell’essenza del modello etico che lo Stato di Israele sta proponendo a sé stesso ed al resto del mondo ebraico diasporico.
Come deve rapportarsi quindi l’ebraismo mondiale nei confronti di Israele? Deve solamente cercare di relazionarsi e rafforzare quelle forze che in Israele combattono contro il governo o deve invece prendere atto di un mutamento più sostanziale della realtà di Israele?
Facendo tutte le distinzioni del caso e nella consapevolezza che siano due fenomeni storici e politici completamente differenti, c’è un parallelo storico illuminante: per oltre cinquant’anni l’URSS era stato il centro ispiratore del movimento comunista mondiale, e tutti i partiti comunisti occidentali guardavano a est nella convinzione che, al di là di critiche contingenti, il sistema socialista dell’URSS fosse il punto di riferimento fondamentale per tutti i comunisti del mondo. Qualcuno lo capì già nel 1956 con l’invasione dell’Ungheria ma, quando nel 1968 venne stroncata nel sangue la primavera di Praga, in gran parte dei partiti comunisti occidentali si capì che l’URSS non doveva e non poteva più rappresentare un riferimento culturale e politico, che da quel mondo non potevano più derivare gli orientamenti per portare avanti una lotta di classe e politica per le sinistre europee.
Oggi il mondo diasporico si trova di fronte ad una scelta simile. Continuare a ritenere Israele il centro di emanazione dei valori ebraici significa accettare una profonda trasformazione degli stessi in senso antiliberale, teocratico e autoritario. Se invece vogliamo rimanere fedeli ad una visione differente dell’ebraismo dove ci sia spazio per il dialogo, per il rispetto del prossimo e che continui ad ambire alla giustizia come obiettivo supremo di ogni azione umana, dobbiamo prendere atto delle trasformazioni in corso e iniziare un nuovo percorso di ridefinizione della nostra identità che sappia (ri)trovare il proprio centro culturale nei valori etici ebraici e non necessariamente nello Stato di Israele; realtà comunque di fondamentale importanza per l’ebraismo con la quale però si deve imparare a coesistere, discutere e talvolta divergere, in un rapporto dialettico di rispetto ed indipendenza.