di Paola Abbina

E alla fine è successo anche questo. Israele si è ricompattato.
Ci è voluta questa maledetta guerra a far riemergere il sentimento di amore nazionale sopito ormai da mesi.
Chi era partito è ritornato e chi si era diviso è nuovamente sotto la stessa bandiera che ora ha un unico significato: io sto con Israele, senza “se” e senza “ma”.
Nello sketch del famoso programma satirico Eretz nehederet (terra meravigliosa) si racconta di una classe di ragazzi che si prepara ad andare in gita scolastica. La maestra li chiama uno ad uno appellandoli come anarchici, bibisti, traditori, messianici accoltellatori a tradimento, distruttori della democrazia, amici degli arabi, razzisti…. tutti pronti a salire sull’autobus che li porta in Israele a combattere. 
Dopo lo shock iniziale, gli eventi hanno cominciato a prendere forma più definita, lasciando gli israeliani con la sensazione di doversi abituare a questa nuova situazione di guerra, di incertezza e di precarietà. Le scuole stanno piano piano ricominciando, i giovani e meno giovani si sono arruolati (e altri si arruoleranno), gli eventi mondani sono stati nel frattempo cancellati (ma chissà per quanto ancora), al calar del buio si preferisce non stare troppo in giro (ma con il ritorno dell’ora solare non è quasi più possibile), i supermercati sono quasi vuoti, e molti negozi sono ancora chiusi. A tratti si respira desolazione, tristezza e tensione, a tratti si cerca di far scorrere la vita in questa nuova normalità, provando a fare finta di niente.
C’è chi è partito con la famiglia e i bambini piccoli per tenerli al sicuro (ma per quanto tempo tenerli lontani dalla loro vita?), chi ha preferito rimanere e sopravvivere a una situazione di tensione superiore alla norma.
Le sirene continuano a suonare da nord a sud con frequenze diverse e la vita è più o meno regolata in base al pericolo che si corre in quella determinata area geografica.
Ci sono sfollati in tutto il paese ospitati in hotel e in strutture simili oltre che in case di volontari che mettono a disposizione le proprie abitazioni.
Ma questa situazione non può essere definitiva, seppur supportata da un minimo di aiuti statali. Chi paga questi hotel, chi paga i B&B? Chi paga i ristoranti che mandano ogni giorno cibo ai soldati? Ma nonostante questo, nessuno osa lamentarsi e tutti offrono il meglio di sé senza limitazioni, ognuno secondo le proprie possibilità.
Ci sono i soldati, che hanno lasciato tutto senza sapere se ritorneranno. Il che implica un effetto domino sull’andamento della vita quotidiana: le giovani famiglie sono lasciate a se stesse, gli esercenti non sanno se, come e quando riapriranno le loro attività commerciali, le università hanno rimandato i loro studi, i campi sono da coltivare e la frutta da raccogliere. Fino al 7 ottobre infatti c’erano lavoratori palestinesi. Oggi non sembra pensabile che possano tornare. E comunque non certo ora. E c’erano i lavoratori stranieri, come i tanti thailandesi, fra i quali pure si sono contate vittime e rapiti. I giovani israeliani sono tutti nell’esercito. E chi non è arruolato si dà da fare al meglio. Si è creata una catena di solidarietà che mira a coprire le esigenze logistiche, psicologiche, economiche del paese. Molti, fra coloro che aspettano l’inizio dei corsi universitari e tra coloro che invece continuano a lavorare, vanno nei campi a raccogliere mele, consegnano pacchi alimentari e vestiari ai soldati, assistono le famiglie sfollate nelle loro necessità.
Le grandi catene commerciali, dai supermercati ai negozi di qualsiasi altro genere, raccolgono ogni giorno carrelli di generi di prima necessità in accordo con i centri di volontariato e con le basi militari per mandare aiuti mirati, sia agli sfollati sia ai soldati. Nessuno si tira indietro. C’è persino chi si rivolge a questi centri di volontariato per chiedere assistenza per celebrare un matrimonio.  Sembrerà strano, ma per chi conosce gli israeliani non lo è: ci si continua a sposare e si mettono al mondo figli, forse con ancora più determinazione di prima.
Ma la cosa più triste e a cui in pochi forse avevano pensato, è la necessità di assistere le famiglie in lutto proprio perché moltissime persone sono al fronte.  Può succedere di rimanere soli nel proprio dolore, e anche qui si ricorre alla società civile per sopperire alla mancanza di persone vicine.
E poi le immagini ad ogni angolo della strada delle vittime dei rapimenti , dei bambini e dei soldati; e le iniziative a sostegno delle famiglie dei rapiti, nelle piazze, per le strade, in marcia verso Gerusalemme e, last but not least, di fronte alla casa del Primo Ministro. 
Non mancano neanche ora le proteste contro Netanyahu, ma hanno un’eco e una presenza diversa. Si continuano a chiedere a gran voce le sue dimissioni, questa volta non nelle piazze (sarebbe troppo pericoloso) ma sui social network. Si protesta senza essere insultati, si protesta senza essere divisi né divisivi. Si protesta perché gli israeliani vogliono un paese normale dove poter vivere. Si protesta perché lui non si è ancora preso nessuna responsabilità (lo farà a guerra finita, dice lui) per la situazione a cui si è arrivati dopo anni di governo in cui assicurava a tutti  i cittadini che Israele sarebbe stato un paese sicuro dove far crescere i propri figli. Un vecchio spot elettorale ricorda come lui bussava alle porte delle case dei cittadini dicendo che si sarebbe preso cura dei piccoli della casa. Sarebbe stato il baby sitter perfetto. Ma ora la gente non ci crede più. Non dopo quello che è successo. E per questo Netanyahu e il suo governo sembrano avere i giorni contati.  

23/11/2023

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