di Alessandro Treves

A prima vista, sembrerebbe che per cogliere il senso di smarrimento del Sette Ottobre basti invertire i principali fattori, rispetto al paradigma a noi familiare dell’Otto Settembre. In Italia nel ‘43 il Re e i suoi accoliti, che avevano il quadro della situazione, avevano abbandonato al loro destino i soldati, all’oscuro di tutto; in Israele nel ’23, le soldatesse avevano avuto sui loro monitor il quadro della situazione e ne avevano trasmesso dettagliati rapporti, eppure sono state abbandonate al loro destino dal “re” e dai suoi accoliti, i quali sostengono di essere rimasti all’oscuro di tutto. L’Italia del ‘43 si percepiva in gran parte come un popolo di straccioni, incapace di misurarsi con le grandi potenze; l’Israele del ’23 si vedeva come incommensurabilmente più potente degli straccioni che aveva d’intorno e – fino al momento dello shock – i disperati erano gli altri, coloro dei quali, anche in quanto disperati, era impossibile fidarsi, nessuno con cui parlare. Nell’Italia del ’43, i disperati di cui gli altri non si fidavano eravamo noi; e infatti, senza tanto parlare, si erano preparati, gli altri.

Eppure, a seguire il rovescio di quella tremenda giornata si delineano, nell’evolversi successivo delle emozioni, dei processi analoghi, che ricorrono nel corso di ogni guerra, particolarmente di una guerra che si allunga verso un esito sempre più cupo. Il principale è la perdita di fiducia nel governo, nell’esercito, in tutti gli apparati dello stato; fra coloro che già ne nutrivano poca, ma soprattutto presso chi, intimamente, ancora ci credeva. La coscienza che lo Stato ti mente, indipendentemente dalle contingenze del momento, come mente Hamas ai gazawi così mente lo stato d’Israele agli israeliani. Sarà uno dei lasciti più duraturi, non felice ma inevitabile, della tragedia del Sette Ottobre. Presa di coscienza probabilmente confermata dalle risultanze delle indagini, se ce ne saranno, o semplicemente dal sentire ufficiali come il tenente colonnello Guy Basson raccontare, nell’intervista andata in onda il 20 gennaio, di aver visto coi suoi occhi 8 bambini trucidati nell’asilo nido del kibbutz Be’eri e l’uccisione dell’anziana Genia, sopravvissuta all’Olocausto; entrambe le cose non vere, come riportato da Haaretz in un articolo del 21 gennaio. Serpeggia il dubbio che anche altri inseriscano liberamente i fatti nella narrazione. Era necessario aggiungerne altre, alle atrocità realmente avvenute? È questo, garantire la sicurezza d’Israele?

Un salto nel passato

[Gli articoli della Pace di Vestfalia contenenti concessioni ai protestanti] sono e saranno legalmente ed in perpetuo nulli, di nessun valore, non validi, perversi, ingiusti, condannati, riprovati, vani e senza alcuna forza od effetto […] provvisioni che dovranno essere per sempre considerate come se non esistessero o non fossero mai state formulate ed approvate. Inoltre, per maggiore precauzione, finché sarà necessario […] condanniamo, riproviamo, estinguiamo, annulliamo e priviamo di ogni forza ed effetto i detti articoli e tutto quanto di pregiudizievole è stato sopra stabilito; così si scagliava Innocenzo X nel suo breve apostolico Zelo domus Dei a proposito della pace per le cui trattative era stato inizialmente inteso come autorevole mediatore. Precursore dell’ostentata rigidità del Primo Ministro d’Israele. Le cose non erano andate come aveva sperato, e la Pace di Vestfalia comportava una perdita netta di potere e di privilegi per la Chiesa di Roma. Ma era solo la Chiesa come Stato che il Papa faceva mostra di difendere, o anche i suoi interessi personali?

Difficile scinderli, nel caso del poco innocente Innocenzo X, Papa discendente diretto di un altro Papa (Alessandro VI, ovvero Rodrigo Borgia) nato nella famiglia Pamphilj, assistente in gioventù del cardinale Francesco Barberini (nipote di Papa Urbano VIII, a sua volta nipote di un altro Francesco Barberini). Eletto Papa alla morte di Urbano VIII, accusò di malversazioni i cardinali Taddeo e Antonio Barberini e fece confiscare i loro beni. Si impegnò bellicoso su moltissimi fronti, dall’Irlanda alla Polonia a Creta al Portogallo, ma il suo unico successo fu a Castro, l’equivalente laziale della striscia di Gaza. Se Urbano VIII aveva cercato senza successo di strappare il ducato di Castro alla famiglia Farnese – anch’essi discendenti di un Papa – Innocenzo X, riconciliatosi coi Barberini, li imitò muovendo a sua volta contro il duca Ranuccio Farnese e contro la città di Castro. Nel settembre del 1649 Castro, che sarebbe potuta prosperare indipendente dallo stato pontificio, una piccola Singapore del Mediterraneo ante litteram, dovette arrendersi, e fu a suo modo un Otto Settembre, anche se era il 2 di quel mese. Ranuccio se ne fece presto una ragione, e se ne andò nell’altro ducato dei Farnese, quello di Parma e Piacenza. Innocenzo X ordinò l’evacuazione totale degli abitanti e la distruzione completa della città. Comprese le chiese. Il cardinale Barberini scrisse ad Innocenzo X che sulle rovine era stato cosparso il sale. Di Castro, un tempo fiorente sede anche di una comunità ebraica, non rimase traccia.

Pochi anni dopo, giusto per tornare a Gaza, Nathan di Gaza prese ad avere le sue visioni, a farsi una fama come guaritore spirituale e ad animare il movimento che riconosceva in Shabbetai Zvi il nuovo Messia. Cominciando col convincerne Shabbetai stesso, all’inizio esitante. Il movimento prese vigore in poco tempo, conquistandosi l’adesione di masse di derelitti ma anche di rabbini e intellettuali; finché i sabbatiani ebbero il loro Otto Settembre il 16 settembre 1666, quando il Messia si convertì all’Islam. La distruzione completa di Gaza sarebbe arrivata alcuni secoli dopo.       

Trieste e Tel Aviv

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