di Anna Segre

HaKeillah compie cinquant’anni. Un traguardo ragguardevole per un giornale nato da un piccolo gruppo di opinione, che non ha dietro di sé una Comunità ebraica o un’istituzione. È importante ricordare che il giornale era nato per contestare la mancanza di democrazia percepita nella gestione comunitaria di allora; da lì è derivato il nome della testata, come a dire: la comunità che vogliamo in alternativa a quella che non ci piace. Fin dai primi numeri, però, a questo primo ambito più immediato se ne sono affiancati subito altri due: riflessioni generali sull’ebraismo (per esempio il dibattito sulle variabili e costanti sviluppato nei primissimi numeri) e un impegno per la pace in Medio Oriente, con l’intento di dar voce alle forze pacifiste e progressiste all’interno di Israele. A questi tre pilastri fondamentali se ne sono aggiunti fin dall’inizio molti altri: condizione giuridica dell’ebraismo italiano, politica italiana e internazionale, memoria, testimonianze, storia, tradizioni locali, antisemitismo, recensioni di libri, film, spettacoli, mostre, ecc. A mio parere è stata proprio questa varietà a permettere al giornale di sopravvivere per cinquant’anni e di restare se stesso pur nel naturale avvicendamento di diversi direttori, redattori e collaboratori.

Nonostante l’ampia gamma di argomenti trattati, credo comunque che HK abbia sempre saputo conservare una propria identità fondata su tre pilastri fondamentali: Comunità (soprattutto Torino) e Ucei, ebraismo (declinato in varie forme, dal Tanakh alle feste, dal punto di vista ebraico su temi di attualità a questioni più strettamente halakhiche quali per esempio la kasherut o le conversioni, dal ruolo della donna alle comunità ebraiche non ortodosse, e molto altro) e Israele (tema che non si esaurisce nel conflitto israelo-palestinese ma riguarda anche la società israeliana, la cultura, le minoranze, le discriminazioni contro le donne, il kibbutz, ecc.). A questi tre grandi ambiti se ne deve aggiungere un quarto che possiamo definire “varie” o “tutto il resto” (storia e memoria, recensioni, ecc.). Superfluo dire che questa è una distinzione puramente teorica e che molti articoli pubblicati riguardavano contemporaneamente due o più di questi ambiti). Un tavolo si regge bene anche su tre gambe ma con quattro è decisamente più stabile perché resterà in piedi anche se una delle tre gambe dovesse rompersi o indebolirsi. Così è stato nella storia di HaKeillah: in alcuni momenti si parlava poco di Comunità, di Israele o di ebraismo, ma le altre tre gambe reggevano benissimo l’insieme.

Un’altra caratteristica di HaKeillah, forse ancora più fondamentale nel garantire la sua durata nel tempo, è stata la sua capacità di perseguire – e quasi sempre raggiungere – obiettivi concreti. La lista dei successi del nostro giornale da questo punto di vista è impressionante: il dibattito sviluppato su HaKeillah ha esercitato un’indubbia e universalmente riconosciuta influenza sulle Intese tra lo Stato e l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e sullo Statuto dell’Ucei; liste progressiste per eleggere delegati al congresso Ucei, anche in altre città, hanno avuto nel loro nome la parola “Keillah” per marcare un’identità chiara; la proporzione di redattori e collaboratori di HaKeillah eletta nel Consiglio dell’Ucei è stata in alcuni periodi eccezionalmente alta in rapporto ai nostri piccoli numeri, e anche con ruoli significativi (ricordiamo, per esempio, che Guido Fubini è stato a lungo direttore della Rassegna Mensile di Israel). Ho lasciato volutamente per ultima la Comunità Ebraica di Torino, su cui l’influenza di HaKeillah ha avuto effetti quasi paradossali: non solo tutte le liste convintamente sponsorizzate da HaKeillah (senza spaccature all’interno dello stesso Gruppo di Studi Ebraici) hanno sempre vinto le elezioni e guidato la Comunità ininterrottamente dal 1981 al 2007, ma anche le due volte in cui si potrebbe parlare di sconfitta sono stati eletti due presidenti (Tullio Levi nel 2007 e Giuseppe Segre nel 2011) e un vicepresidente (David Sorani, il più votato nelle elezioni del 2011) che erano, o erano stati, membri del GSE e che avevano un legame fortissimo con HaKeillah. Insomma, come una sorta di re Mida, questo giornale ha fatto vincere le elezioni comunitarie torinesi a tutto ciò che ha toccato, talvolta anche al di fuori delle sue intenzioni. E ovviamente, date queste premesse storiche, sarebbe sciocco e ingrato da parte mia negare l’influenza determinante di HK nel mio personale successo elettorale nel 2023.

Come stanno le gambe del tavolo in questo suo cinquantesimo compleanno? Bene, direi quella di Israele, con molti collaboratori prestigiosi, riflessioni e testimonianze interessanti. Forse qualcuno potrebbe lamentare un’eccessiva concentrazione sul conflitto, ma questo è comprensibile considerando la gravità e l’urgenza della situazione. Abbastanza bene la quarta gamba, in particolare per quanto riguarda la memoria, con l’acquisto, per esempio, di un collaboratore del calibro di Michele Sarfatti. E le altre due?

Nell’ultimo numero uscito, quello di marzo, in sé bello e approfondito, non c’è neanche un articolo che si possa definire di riflessione sull’ebraismo, a parte qualche fugace cenno nell’ambito di temi di attualità. Ancora più assordante, dal mio punto di vista, il silenzio per quanto riguarda le Comunità ebraiche e l’Ucei. Come ho già detto, credo che l’attuale maggioranza comunitaria torinese, per quanto variegata, debba moltissimo al sostegno di HaKeillah nelle elezioni del 2023. Salvo, poi, essere stata abbandonata quasi del tutto al proprio destino. Almeno, da parte di HaKeillah, perché a titolo personale molti membri del Gruppo di Studi Ebraici portano come sempre il loro prezioso contributo in vari ambiti della vita comunitaria, partecipano alle commissioni, frequentano regolarmente le attività, sono presenti in altre organizzazioni ebraiche, scrivono nelle chat, ecc. Inoltre Bruna Laudi, Presidente del Gse, non fa mai mancare alla newsletter comunitaria il resoconto degli eventi organizzati dal Gruppo. Ma perché poi niente di tutto questo trova spazio su HaKeillah? La risposta che immagino e che già mi è stata data a voce – “avete solo da scrivere!” – non mi convince: una redazione non si limita a raccogliere articoli, ma sui temi che ritiene importanti agisce in prima persona, chiede, insiste, intervista. A voce mi è stata anche menzionata come motivazione la gravità straordinaria della situazione di Israele, sia all’interno, per quanto riguarda i rischi per la tenuta della sua democrazia, sia per la gravità di quanto succede in Cisgiordania e a Gaza. A questa obiezione io rispondo: appunto! Perché in un momento così cruciale per la vita dell’ebraismo un giornale che ha sempre saputo contare molto di più del proprio peso numerico sia a livello cittadino sia a livello nazionale rinuncia persino a tentare di esercitare qualche influenza? Perché limitarsi alla denuncia quando c’è la possibilità di agire? Perché lasciare tra pochi mesi la rappresentanza ufficiale dell’ebraismo italiano a chi difende Israele senza se e senza ma? Perché arrendersi senza combattere?

Con il nuovo Statuto Torino ha un solo rappresentante nel Consiglio dell’Ucei, e questo rappresentante è nominato dal Consiglio della Comunità; ma il nostro giornale non è letto solo a Torino. E anche qui il Gruppo di Studi Ebraici e HaKeillah hanno la possibilità di partecipare a un dibattito pubblico su quali debbano essere le istanze da portare e i paletti da rispettare. Poco, forse, ma poco è molto più di niente.

Nell’ambito della Comunità di Torino, invece, come abbiamo visto, quello che possono fare HaKeillah e il Gruppo di Studi Ebraici non è poco, anzi, è moltissimo, e può essere determinante. Nei quasi tre decenni in cui il Gse ha governato la Comunità sono state promosse iniziative volte a far conoscere la realtà progressista israeliana, abbiamo partecipato a momenti di confronto e dialogo o a iniziative a favore della pace.

Forse ancora più importante di ciò che è stato detto è ciò che non è mai stato detto: nessuna e nessun Presidente eletto ufficialmente in una lista sponsorizzata dal Gse e da HaKeillah – e neppure l’attuale Presidente Dario Disegni che il Gse e HK hanno sostenuto nelle ultime tre elezioni – ha mai detto o scritto pubblicamente che qualunque governo israeliano ha sempre ragione qualunque cosa faccia; nessuno ha mai espresso pubblicamente parole di simpatia nei confronti di Netanyahu; nessuno ha mai detto che Israele deve annettere la Cisgiordania; nessuno ha mai criticato gli accordi di pace. E, ovviamente, nessuno ha mai espresso simpatia nei confronti di partiti e personalità della destra italiana. Mi sembra significativo, inoltre, che il grande progetto per il quale la Comunità Ebraica di Torino ha promosso un’asta e una raccolta di fondi a favore di Israele dopo il 7 ottobre abbia come beneficiario specifico il kibbutz Holit e non qualche istituzione filogovernativa. Tutto ciò non è affatto scontato, considerato quello che è stato fatto e detto in altre Comunità. Siamo proprio sicuri che sia così irrilevante da correre il rischio di perderlo? Anche da parte dei Presidenti e delle Presidenti dell’Ucei degli ultimi cinquant’anni mi pare si possa dire sostanzialmente lo stesso, per quanto a mio parere ci sia stata in qualche caso una maggiore ambiguità. Ma non riesco a capire come si possa non vedere la differenza tra quello che è stata l’Ucei fino ad oggi con ciò che potrebbe diventare nei prossimi anni. Non vale la pena che HK se ne occupi almeno un po’?

Ancora di più vedo enormi possibilità di azione e riflessione per quanto riguarda Torino: si possono organizzare eventi e darne conto su HaKeillah; si possono promuovere dibattiti, si possono portare istanze nelle assemblee comunitarie, si possono avanzare richieste specifiche al Consiglio, si può protestare, si possono raccogliere firme. E, soprattutto, se ne può almeno parlare su HK.

Invece non solo si tace ma da parte di alcune persone che fanno parte del Gse o comunque del bacino di pubblico e collaboratori di HaKeillah si leggono e si ascoltano generiche accuse alle Comunità ebraiche italiane nel loro insieme, senza alcun tipo di distinzione, indebolendo fortemente la posizione di chi nell’ambito delle Comunità e dell’Ucei cerca di opporsi alla deriva di destra che il 7 ottobre e l’ondata di antisemitismo a cui abbiamo assistito in questo ultimo ano e mezzo hanno generato. Sinceramente fatico a capire come persone che si danno meritevolmente molto da fare per informarsi sulla realtà israeliana e palestinese non si preoccupino quasi per nulla di analizzare quello che sta accadendo nelle loro stesse Comunità.

Mi fanno ancora più male le accuse di mancanza di pluralismo che nell’ultimo anno e mezzo sono state rivolte spesso alle Comunità italiane in generale. Di che cosa stiamo parlando? Quando mai la newsletter comunitaria torinese ha rifiutato un testo perché troppo critico verso Israele? Quando mai è stato negato il Centro Sociale per qualche evento? Quando mai alcuni autori che successivamente hanno gridato alla censura hanno chiesto di presentare i propri libri in Comunità? (Francamente non definirei mancanza di pluralismo non essere stati corteggiati e supplicati come forse avrebbero voluto).

Ho l’impressione che si parli di mancanza di pluralismo quando in realtà si vorrebbe che la maggior parte degli ebrei torinesi o italiani avesse o esprimesse pubblicamente opinioni che in questo momento non ha o ha scelto deliberatamente di non esprimere pubblicamente perché (giustamente, a mio parere) non vuole cedere alle posizioni ricattatorie di chi pretende dagli ebrei prese di distanza non solo da Netanyahu e dal suo governo ma da Israele in sé.

Ovviamente nessuno è obbligato a uniformarsi alla maggioranza, ma una minoranza, in politica, dovrebbe cercare di diventare maggioranza convincendo i dubbiosi e i perplessi, non attaccandoli o accusando di essere a favore della pulizia etnica chiunque si permetta di dubitare dell’opportunità di pubbliche prese di distanza da Israele. Quella della torre d’avorio, dell’orgoglio di essere una minoranza dura e pura che non fa il minimo sforzo per diventare maggioranza, è una tentazione radicata nella sinistra, da cui per cinquant’anni il Gruppo di Studi Ebraici e HaKeillah sono stati fortunatamente immuni. Sarà bello se continuerà ad essere così.

Dunque, perché non ricostruiamo insieme tutte le gambe del tavolo?

 

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