di Raniero Fontana

Ho assistito all’incontro organizzato in occasione della XXXV Giornata del dialogo ebraico-cristiano (2024) tra il Vescovo Trevisi e il Rabbino Meloni di Trieste. Seguono alcune mie osservazioni a margine dell’evento. L’incontro è stato un po’ diverso dal solito, questo dopo che il Rabbino ha deciso di mettere da parte il tema della Giornata per affrontare di petto la situazione venutasi a creare a partire dalla carneficina del 7 ottobre e il suo impatto sullo stato del dialogo ebraico-cristiano. La posizione del Vescovo era nota da una riflessione resa pubblica con la quale si dichiarava dalla parte delle vittime; in questo caso, le vittime israeliane e palestinesi. La sua meditazione sul capitolo 37 (vv 1-14) di Ezechiele, oggetto dell’incontro, insisteva sul tema del dolore altrui, con l’invito a entrarci dentro, per sentirlo e farlo proprio, mettendo in questo modo in risalto quel che doveva rappresentare un gesto autenticamente umano e cristiano.

Jean Genet, lo scrittore che Sartre definì un santo, è forse l’esempio più eclatante che mi è passato in quel momento per la mente, perché fece della solidarietà con le vittime un criterio di impegno politico e morale. Egli poteva empatizzare coi tedeschi e coi collaborazionisti, coi violenti e coi terroristi, per il solo fatto di vederli perdenti. E certo non sfuggì alla sua attenzione la sofferenza dei palestinesi. Ma sarebbe stato capace di avere una parola solidale per le vittime civili israeliane del 7 ottobre?

Genet è tanto radicale quanto di parte. Le vittime non contano finché appartengono al campo dei forti e dei vincitori. Vero è che dichiararsi imparziali suona male quando si tratta di assumere un impegno. Le cose non sono le stesse viste da dentro o da fuori. In piena bufera, sotto il nazismo, quando gli ebrei erano perseguitati e le sinagoghe incendiate, il pacifista Gandhi volle indicare a Martin Buber, filosofo e sionista, la resistenza non-violenta come via da seguire affinché i figli di Israele potessero preservarsi moralmente puri. Buber, che ebbe un ruolo di rilievo tra le fila di coloro che militavano per la pace tra ebrei ed arabi in Terra di Israele, respinse quelle parole con sdegno. Ho pensato allo scambio epistolare tra Gandhi e Buber dopo il richiamo del Vescovo all’unica opzione autenticamente cristiana davanti alla violenza: il cristiano è tenuto a subirla piuttosto che a perpetrarla. Tuttavia, rispondere al male, anziché porgere l’altra guancia, è pur sempre un dovere morale oltre che un dovere di giustizia. Nel caso di Israele, una mancata risposta al pogrom del 7 ottobre non era a mio giudizio un’opzione moralmente valida.

Ma che dire adesso delle oltre 27.000 vittime palestinesi a Gaza? Sarebbe questa la giusta risposta? Ecco la domanda fatidica, con la quale si spegne ogni possibilità di intesa; l’argomento che mette con le spalle al muro, con il quale si condanna Israele, senza appello. Io però chiedo: se è di numeri che si tratta, quante sarebbero le vittime ammesse? Se 27.000 sono troppe, sarebbero più accettabili 15.000, 10.000, 5.000? O non sarebbe troppo anche il farne una sola? L’ebraismo insegna che ogni singolo essere umano è un intero mondo. Per questo non posso pensare che Israele abbia perso il senso del bene e del male. Nessuno che io conosca in Israele è fiero delle vittime di Gaza. Ci si dovrebbe allora chiedere se quei civili non siano vittime innanzitutto della strategia di chi li governa, di chi li rappresenta politicamente e militarmente, che di loro si fa scudo e non tiene conto.

Questo conflitto è tremendo. E il dibattito tra il Vescovo e il Rabbino ha messo in scena due prospettive etiche che cozzano tra loro da 2000 anni. Il Rabbino ha usato l’ironia affermando che essere cristiani è più difficile che essere ebrei. Gesù e Mosè, dunque. Qui si trova davvero la chiave di tutto. Ricordo comunque che da sempre lo smisurato ideale del cristiano, del porgere l’altra guancia, di amare il nemico, non ha rimosso la violenza dalla storia, la quale ha sempre avuto libero corso tra popoli e paesi cristiani, come mostra l’attuale conflitto tra russi e ucraini.

2000 anni di cristianesimo non sono certo poca cosa. Nel repertorio di chi oggi colpevolizza Israele non è raro intendere il richiamo della legge del taglione. Un tale richiamo è diventato patrimonio comune, con lo stesso senso per tutti, atei o credenti, come espressione di vendetta. Una tale incomprensione è il frutto di un secolare pregiudizio cristiano nei confronti della Bibbia ebraica. Tale legge, in realtà, rappresenta nella Bibbia stessa un meccanismo di contenimento della vendetta e non di ritorsione. I maestri di Israele hanno poi interpretato questa legge nel senso di un risarcimento dovuto di natura monetaria. In questo modo l’ebraismo coltiva prosaicamente un senso umano della giustizia. Educa a esercitare il proprio discernimento morale entro i limiti che la condizione umana impone anziché volerla sublimare, come pretende il cristiano.

La Bibbia è una risorsa per la riflessione morale ebraica. Una risorsa che anche oggi, confrontati con una situazione molto complessa come quella di Gaza, in Israele non si smette di indagare. Proprio la Bibbia, anzi, sembra rimessa in auge da quanto accade – più ancora della letteratura talmudica posteriore. Ovviamente, ciò richiede le dovute e necessarie precauzioni. Poiché il presente non è identico a quanto la Bibbia descrive. Un tema biblico che comunque è di bruciante attualità, avendo sullo sfondo l’operazione militare a Gaza, è, per esempio, il tema della punizione individuale e collettiva. L’etica ebraica considera le varie prospettive in materia contenute nella Bibbia, criticamente le soppesa e le discute, le integra o le scarta. Il cristiano difficilmente prenderà sul serio la rilevanza per l’oggi di quello che la Bibbia racconta di Noè, di Lot, di Core e di altre figure ancora, dal punto di vista di un dibattito tanto spinoso quanto esecrato. Eppure, nella situazione attuale, quelle pagine bibliche hanno di che aiutare la riflessione morale, con il loro realismo, più di quanto lo possa un’astratta legge dell’amore. E soprattutto quando in gioco non è la perfezione personale, ma l’agire politico e l’esistenza di un’intera nazione. Questo è solo un esempio. Ma assai istruttivo del perché il cristiano finisca per non vedere alcuna morale nell’agire di Israele.

Perso l’orizzonte mosaico della Bibbia e della sua interpretazione posteriore, estraneo alle tradizionali sorgenti a cui la morale ebraica attinge gran parte della sua ispirazione, cosa resta al cristiano che vuole incontrare Israele? Stando alle parole del Vescovo, unicamente il suo dolore.

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