di Sarah Mustafa
C’è ancora spazio per una voce condivisa tra israeliani e palestinesi? Ce lo siamo chiesti, ebrei italiani e palestinesi che viviamo in Italia, durante l’incontro “Dialoghi possibili”, organizzato il 9 maggio scorso all’Anteo Palazzo del Cinema di Milano da due realtà della diaspora ebraica italiana: Maiindifferenti – Voci ebraiche per la pace, e Ləa – Laboratorio ebraico antirazzista. Un evento che ha visto un’affluenza considerevole, a testimonianza di un bisogno sempre più diffuso di uscire dalle narrazioni binarie e restituire al discorso pubblico la complessità della questione israelo-palestinese.
A dare avvio all’incontro è stata Jardena Tedeschi, che ha illustrato la missione della rete Maiindifferenti: “Angosciati dal massacro in atto e preoccupati della politica suicida dello Stato di Israele, nelle nostre iniziative abbiamo cercato di far emergere il dissenso nel mondo ebraico della diaspora e di dare voce e visibilità all’opposizione israeliana e alle associazioni israelo-palestinesi che lottano per la pace”.
Un messaggio in linea con quello portato da Giulia Frova, intervenuta per conto di Ləa: “Ləa è una rete che coinvolge giovani ebree ed ebrei italiani che si dissociano dalle posizioni acritiche verso Israele, vogliono esprimere una voce di solidarietà e di giustizia sociale attraverso varie iniziative”. E come dichiarato congiuntamente da tutti gli ospiti: la pace non potrà mai realizzarsi senza la fine del massacro, dell’Occupazione, senza rispetto delle risoluzioni Onu – in particolare della 194 – e il riconoscimento del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione.” Ha spiegato Eva Schwarzwald della rete Maiindifferenti.
Il punto di partenza per l’organizzazione dell’incontro è stato il docufilm No Other Land, realizzato da registi palestinesi e israeliani. Un’opera che, al di là del racconto della brutalità vissuta nei territori, prova a immaginare una possibilità: che su quella terra, oggi martoriata, possano convivere due popoli con pari diritti.
Moderato dal giornalista Matteo Pucciarelli, il dibattito si è articolato in tre momenti principali, ciascuno centrato su alcune clip del film e arricchito dagli interventi di numerosi ospiti, sia in presenza sia da remoto.
Territori occupati, diritti negati
Davide Lerner ha introdotto la serata con una panoramica sull’attuale configurazione della Cisgiordania, suddivisa dopo gli Accordi di Oslo nelle aree A, B e C. Ma, come ha sottolineato, oggi le distinzioni sono sempre più labili: l’occupazione militare israeliana è diventata ubiqua e pervasiva. Il villaggio di At-Tuwani, teatro principale del docufilm, si trova in Area C, nella regione di Masafer Yatta, nella provincia di Hebron, in arabo Al Khalil, dove le demolizioni di case e scuole sono all’ordine del giorno. Da lì si dipana una narrazione potente, fatta di resistenza quotidiana, ma anche di incontri umani che sorprendono per la loro intensità.
Il primo gruppo di relatori ha commentato due clip particolarmente toccanti: l’arrivo del regista israeliano Yuval Abraham nel villaggio palestinese e la vita in una grotta di una famiglia sfollata. Ha parlato Ali Rashid, figura storica della diaspora palestinese in Italia, con nostro grande dolore scomparso due giorni dopo il suo ritorno a Orvieto, dove viveva. Ha spiegato che quella palestinese è una resistenza che non si piega, ma che ha anche bisogno di avvicinarsi all’altro, evitando il nazionalismo cieco. Un messaggio simile è venuto da Noga Kadman, ricercatrice israeliana, che ha raccontato un episodio rivelatore: il suo stupore, da ragazza, nel vedere un padre palestinese abbracciare il figlio. “To’, anche loro amano i loro figli”, aveva pensato. “Questo è il segno del lavaggio del cervello a cui siamo sottoposti”, ha affermato.
Alrabi Najati, medico impegnato in prima linea con Sanitari per Gaza, ha aggiunto che, nonostante la disperazione, l’apertura dimostrata da alcuni israeliani restituisce un briciolo di fiducia. “A Gaza e in Cisgiordania ci si sente abbandonati – ha detto – ma vedere ebrei che comprendono le nostre condizioni riaccende la speranza”.
Acqua, scuole e memoria: quando l’umanità viene sepolta
Il secondo blocco del dibattito ha riguardato la distruzione dei servizi essenziali: l’acquedotto del villaggio, riempito di cemento da militari israeliani, e la demolizione di una scuola elementare. Qui è intervenuta la sottoscritta ricordando come queste immagini siano la quotidianità nei campi profughi, dove ho vissuto parte della mia vita. “Quale trauma per un bambino vedere la propria scuola rasa al suolo? E che dire di un popolo a cui si nega acqua e istruzione, diritti fondamentali, per poi accusarlo di essere incapace e ignorante? È in questi contesti che s’invoca l’umanità, si grida un dolore che è uguale al tuo se solo lo potessi vedere”.
Widad Tamimi, intervenuta in videocollegamento: la sua riflessione è andata oltre le vittime palestinesi per interrogare anche i carnefici. “Come potrà convivere con sé stesso il soldato che ha distrutto quei tubi dell’acqua?”.
Stefano Levi Della Torre ha voluto invece ricordare il proprio vissuto ebraico: “Rivedo le leggi razziali del ’38, la cacciata degli ebrei dalle scuole. Le immagini che abbiamo visto evocano pulizia etnica, apartheid, e una volontà sistematica di cancellazione dell’altro”.
Questo secondo blocco è stato arricchito dal video inviato dal refusnik [renitente alla leva ndr] Iddo Elam che ha espresso con forza il suo rifiuto e disprezzo per il comportamento del governo israeliano e l’IDF nei territori occupati e a Gaza.
Perseveranza e responsabilità: verso quale futuro?
Il terzo gruppo di ospiti ha commentato una clip in cui i due registi discutono dei limiti della comunicazione online. Yuval si lamenta per le poche visualizzazioni ottenute da un suo post. Basel gli risponde che il cambiamento non si misura in giorni. È un confronto simbolico tra due approcci: l’urgenza occidentale e la resistenza paziente di chi vive l’occupazione ogni giorno.
Khader Tamimi, rappresentante della comunità palestinese in Lombardia, ha messo in guardia dall’uso delle parole: “Siamo noi a doverci adeguare al linguaggio imposto, a censurare termini come massacro o pulizia etnica. Eppure, la realtà non può essere edulcorata”.
Gad Lerner ha chiuso con un invito alla responsabilità, soprattutto per chi, come lui, non vive sotto le bombe. “L’utopia non è un lusso – ha detto – è un dovere per chi è fuori dal cratere della guerra”.
Voci fuori programma, ma non fuori luogo
A sorpresa è intervenuta Daria Bignardi, appena tornata dai Territori occupati. Il suo racconto ha scosso la platea: episodi di brutalità quotidiana, l’incontro con l’intellettuale Suad Amiry, oggi disillusa dall’Occidente. Un’Europa che, nonostante i proclami, continua a voltarsi dall’altra parte.
Infine, Gabriele Nissim, fondatore di Gariwo, ha proposto di proseguire questo percorso organizzando un nuovo evento nel Giardino dei Giusti di Milano. Perché, ha detto, è proprio nei momenti più bui che bisogna coltivare semi di pace.
Uno spiraglio
L’incontro si è concluso con un lungo applauso. In sala si percepiva un’attenzione importante. A suscitare tale coinvolgimento non è stata solo la profondità dei temi, ma la consapevolezza che, forse per la prima volta in questo contesto, voci ebraiche e palestinesi si sono offerte insieme al pubblico: senza polemiche, senza astio, con il coraggio di esporsi fianco a fianco e l’umiltà di ascoltare l’altro. È proprio da questa apertura autentica che può nascere una nuova possibilità di comprensione.
Da “Dialoghi possibili” non sono uscite soluzioni, né illusioni, non era questo il nostro intento. Ma una riflessione condivisa che vi lascio: tutto inizia dal riconoscimento del dolore dell’altro. Solo allora si potrà parlare davvero di dialogo. E forse anche di futuro. La pace non sarà mai possibile senza il riconoscimento del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione, il rispetto delle risoluzioni internazionali e, prima di tutto, la fine dell’occupazione.





