di Rimmon Lavi
Le ultime elezioni europee, assieme alle vittorie delle destre in India e in America del Sud, alle previsioni per le prossime elezioni presidenziali americane, al successo della strana sintesi cinese tra regime totalitario e economia capitalista, permettono di parlare di ondata sovranista e xenofoba mondiale, che si rinforza dalla fine del secolo scorso. Già Erich Fromm nel 1941 aveva spiegato l’involuzione dei giovani cresciuti nelle democrazie liberali, maturate durante l’800, verso ideologie anti-liberali, a causa dell’insicurezza personale che la libertà può creare nei singoli: molti di questi, privati delle istituzioni a cui ispirarsi, come la chiesa, la monarchia o il sistema sociale atavico, hanno bisogno di seguire figure carismatiche che propongono rappresentazioni semplicistiche di una realtà complessa, in termini di bianco o nero, bene o male, fedeli o traditori. Sarebbe possibile allora sperare che si tratti di uno sviluppo dialettico oscillante che possa portare a una periodica e persino salutare sintesi di rinnovamento, che risani le corruzioni e le cristallizzazioni inevitabilmente congiunte a un potere prolungato. Appunto come è successo nella prima metà del ‘900: prima, adesione di massa a favore di regimi totalitari d’impronta fascista, poi rifiuto, dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale e della Shoà.
Anche il Welfare, fiorito in occidente come difesa sia contro le crisi periodiche dell’economia capitalista, sia contro gli apparati burocratici centralizzati dei sistemi totalitari di destra o di sinistra, si trova alla fine del secolo minacciato e indebolito a causa della globalizzazione e delle ondate d’emigrazione dai paesi poveri. Allora possiamo forse riconoscere nell’attuale prima metà del 21esimo secolo, un nuovo riflusso pendolare verso regimi suprematisti, autoritari e etnocentrici?
Ma un’analisi a risoluzione meno globale e simultanea, più storicista e particolare, presenta una possibile spiegazione alternativa o complementare. Direi infatti che quasi tutte le società che si sono create come nazioni indipendenti e libere dalle costrizioni d’origine religiosa o dalle ceneri degli imperi coloniali o multietnici, passano quasi inevitabilmente per uno stadio nazionalistico, più o meno esacerbato. Così l’Italia è nata dagli ideali risorgimentali di Mazzini, che già parlava dei valori umanistici universali e sognava la Giovane Europa. Cavour era riuscito ad assicurare la corona ai Savoia, con lo statuto di Carlo Alberto del 1848; governi successivi avevano avuto la fortuna di puntare sulla parte che vinse la prima prolungata e disastrosa guerra mondiale. Ma entro 60 anni dall’unità, è bastata la minaccia della Marcia su Roma per far crollare il sistema dello stato di diritto democratico in un regime fascista che divenne esempio poi per la Spagna e la Germania. La prima, da poco liberata dal dominio della monarchia e della chiesa, si trovò presto, dopo sanguinosa guerra civile, sotto la dittatura demagogica e religiosa di Franco. La seconda, dopo la prima guerra mondiale, rispose alla sconfitta militare, alle gravi condizioni umilianti imposte dai vincitori e alla crisi economica con l’avvento, sulle ceneri della repubblica liberale, del Terzo Reich di Hitler che, in un solo decennio, la portò alla distruzione totale, assieme ai milioni di vittime nostre e di tutta Europa. E con loro si possono annoverare anche l’Ungheria e la Romania della prima metà del ‘900, con i loro regimi autocratici e antisemiti, che avevano appena ottenuto l’indipendenza nazionale, in seguito allo smembramento dell’impero asburgico multietnico. Così pure possiamo riconoscere lo stesso modello evolutivo nei paesi dell’est dell’Europa, liberati dall’impero comunista verso la fine del secolo scorso, con rivoluzioni liberali più che nazionalistiche, che scelgono in seguito democraticamente partiti e governi etnocentrici e suprematisti d’impronta antidemocratica, al punto di favorire formazioni protofasciste, come nelle zone della Germania dell’Est, in reazione al totalitarismo sovietico di cattiva memoria. Anche la Russia stessa, scossa alla fine degli anni ’80 del novecento dal giogo dell’apparato del partito comunista, si ritrova sotto il regime dispotico e neoimperialista di Putin e dei suoi oligarchi. Pensiamo anche all’India di Gandhi e Nehru, la più popolosa democrazia del globo, che pare stia trasformandosi, malgrado l’eredità del sistema inglese e i fragili equilibri pluralisti dopo l’indipendenza del 1947, in etnocrazia autoritaria.
Forse, combinando le spiegazioni evolutive e dialettiche, possiamo pur sempre sperare, e lottare per un futuro meno etnocentrico e più tollerante, anche nelle nazioni con tradizione democratica più radicata e anche nelle nazioni che si sono formate più recentemente.
Come però riferirsi all’esperienza israeliana? Anche qui l’indipendenza e la formazione dello stato degli ebrei, sulle ceneri della Shoà, al tempo dello smembramento dell’impero coloniale britannico, ha avuto un inizio democratico, persino con un sistema di governo ed economia socialdemocratica, per costruire un ethos nazionale, di fatto solo per gli ebrei. Malgrado le lotte interne coi revisionisti con tendenze nazionalistiche, molti tra i sionisti hanno creduto che il risorgimento ebraico fosse immune dallo sviluppo di tendenze autocratiche, essendo stati gli ebrei le vittime naturali di ogni forma dispotica e demagogica, di destra o di sinistra che sfrutta prima o poi l’antisemitismo atavico e la xenofobia. Lo sviluppo naturale avrebbe dovuto essere la costruzione di uno stato di diritto liberale per tutti i cittadini: ma il sogno è svanito in seguito alla seconda e più rapida vittoria inebriante del 1967, contro la minaccia da parte della coalizione di stati arabi. La debolezza dell’economia centralizzata, unita allo sfruttamento coloniale dei lavoratori palestinesi nel primo decennio d’occupazione di territori arabi, fittamente popolati anche per la presenza degli sfollati dal 1948, hanno portato facilmente al potere la destra nazionalista. Questa da allora, eccetto corte parentesi quasi casuali, si rinforza col messianismo e il suprematismo etnocentrico e razzista, in coalizione con gli ortodossi ashkenaziti e gli ebrei d’origine orientale: questi ultimi si sentono ancora esclusi dalle élite che erano al potere durante l’immigrazione di massa del primo decennio. Infatti, solo gli immigrati dall’Europa, sopravvissuti alla Shoà, riuscirono a crearsi presto un futuro migliore, grazie ai risarcimenti tedeschi degli anni ’50.
Sarebbe allora adatta la spiegazione evolutiva dal risorgimento nazionale all’involuzione sovranista? Del resto, anche la corruzione dell’apparato centralista delle élite laburiste e sindacaliste ha favorito un’ulteriore involuzione dal 1977 in poi. Forse la corruzione della destra al potere da tanti anni potrebbe far sperare in una nuova inversione dialettica verso una sintesi migliore per il futuro d’Israele: lo provano le massive e persistenti manifestazioni contro le proposte legislative autoritarie di prima del pogrom del 7 ottobre, quelle attuali per portare alla liberazione degli ostaggi e, ultimamente, quelle per richiedere elezioni anticipate. Ma i sondaggi mostrano una stupefacente rinascita della popolarità di Netanyahu, malgrado la catastrofe del 7 ottobre, di cui molti lo ritengono responsabile, e l’impantanamento militare, economico e diplomatico in questa perpetua guerra di vendetta da lui diretta assieme agli estremisti di destra e ai religiosi ortodossi. Nel frattempo, i gruppi estremisti di giovani coloni, sostenuti dall’esercito, dal ministro della sicurezza nazionale (seguace del razzista Kahane) Itamar Ben-Gvir e dal messianico ministro del Tesoro con competenza su Giudea e Samaria Bezalel Smotrich imperversano sui palestinesi in Cisgiordania. Gli accordi di coalizione assicurano agli ortodossi (e ai coloni) sproporzionati bilanci pubblici, mentre gli sfollati dal sud e dal nord del paese, assieme ai riservisti richiamati per tanti mesi, crollano economicamente e hanno difficoltà ad accedere ai servizi di base. L’attuale coalizione di governo promulga leggi ingiuste, difende l’esenzione dalla leva dei giovani ortodossi, sempre più numerosi, mentre l’esercito (bloccato come sempre su una strategia che esclude la diplomazia) manca di soldati e prolunga il periodo annuale di servizio dei riservisti di leva. Persino i nazionalisti non ortodossi, sempre più numerosi nell’esercito sia di leva sia di riserva e tra gli ufficiali e che contano anche molti caduti in guerra, si ribellano contro tale diseguaglianza. Sembra inverosimile che l’opposizione esterna e interna riesca a portare alle dimissioni di Netanyahu, a un governo alternativo o a nuove elezioni: l’opposizione ebraica, divisa tra tanti “capi” inconciliabili, continua a rifiutare sia l’alleanza con gli arabi israeliani, senza i quali non c’è alternativa, sia il riconoscimento del diritto di autodeterminazione dei palestinesi. Ma anche eventuali elezioni probabilmente non riusciranno a vincere il suprematismo ebraico attuale e a portare avanti una visione più aperta verso la coesistenza dei due popoli egualmente legati alla stessa terra, Palestina o Israele, come si voglia chiamarla, unita, divisa o confederata.
Gerusalemme, 25 Giugno 2024